Leopoli, un cuore galiziano che batte forte in Ucraina
| Esteri
Capoluogo dell’Ucraina occidentale, oggi la grande bellezza di Leopoli stride ancor di più con la disperazione degli sfollati in fuga. Un’atmosfera surreale ha trasfigurato questa città bomboniera che ora si prepara alla guerra.
Leopoli, un cuore galiziano che batte forte in Ucraina
Capoluogo dell’Ucraina occidentale, oggi la grande bellezza di Leopoli stride ancor di più con la disperazione degli sfollati in fuga. Un’atmosfera surreale ha trasfigurato questa città bomboniera che ora si prepara alla guerra.
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Leopoli, un cuore galiziano che batte forte in Ucraina
Capoluogo dell’Ucraina occidentale, oggi la grande bellezza di Leopoli stride ancor di più con la disperazione degli sfollati in fuga. Un’atmosfera surreale ha trasfigurato questa città bomboniera che ora si prepara alla guerra.
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AUTORE: Pierluigi Mennitti
Elegante, impreziosita da palazzi barocchi che richiamano malinconie perdute della vecchia Galizia asburgica, la grande bellezza di Leopoli stride oggi ancor di più con la disperazione degli sfollati in fuga dalla guerra. Capoluogo dell’Ucraina occidentale, cuore di tutte le rivolte antirusse, porta verso l’Occidente, Leopoli è una città tanto culturalmente vivace quanto asfittica sul piano economico, lontana dagli interessi delle oligarchie industriali: il che l’ha tagliata fuori dai circuiti dell’economia senza risparmiarle quelli della corruzione.
Ha trovato un suo nuovo ruolo proprio nel lungo conflitto con Mosca, riscoprendosi culla dell’“ucrainità”. D’altronde qui si è sempre guardato a Varsavia e a Vienna mentre di Russia nessuno ha mai voluto neppure sentir parlare. La latina Leopoli, l’austriaca Lemberg, l’ucraina Lviv, la russa Lwow: tanti nomi per un unico luogo dalle identità cangianti e dai centomila passati. Un crocevia di uomini portati e deportati dalle vicende della Storia, da regimi che venivano e andavano, da confini che potenze più grandi hanno spostato a loro piacimento.
Le cucine rimandano odori russi, di panna acida e zuppa di barbabietole, smetana e borsch, di burro soffritto che imbionda i pelmeni. È perché la cucina originaria, galiziana, si è trasferita a Occidente assieme a quegli abitanti di origine polacca che nel 1945 i sovietici deportarono in Slesia per popolare le nuove terre di Polonia strappate ai tedeschi.
Il poeta Adam Zagajewski ha fissato per sempre in versi e racconti la memoria di quello spaesamento che aggredì soprattutto le generazioni più anziane: «Camminavo così per le vie di Gliwice con mio nonno – scrive ricordando l’infanzia polacca nel suo romanzo “Tradimento” – ma in realtà stavamo passeggiando per due città differenti.
Io ero un ragazzo dotato di buon senso (…) e mentre percorrevo le vie di Gliwice, tra gli edifici prussiani in stile liberty adorni di pesanti cariatidi in granito, ero certissimo di essere dov’ero. Da parte sua, e sebbene camminasse a fianco a me, in quello stesso momento mio nonno si trasferiva a Leopoli. Io camminavo per le vie di Gliwice, lui per quelle di Leopoli». Infatti oggi è nelle polacche Wroclaw, Gliwice, Opole che ristoranti con nomi galiziani cucinano i sapori della nostalgia leopolina.
«La Galizia si trova in un isolamento trasognato, e tuttavia non è isolata» scriveva nel 1924 Joseph Roth, che era nato a Brody, a due passi da Leopoli. «È confinata ma non tagliata fuori; ha più cultura di quanto lascino presumere i suoi canali di scolo; un gran disordine e ancor più stranezza».
E di disordine ce n’è sempre stato tanto, da quando nel 1991 si sciolse il sodalizio con l’Urss: eccentrico e giocoso quello per le strade del centro storico, affollato da una moltitudine di giovani che riempiva pub e caffè, mercati e concerti rock all’aperto. Eppure proprio da qui tanti altri giovani avevano fatto fagotto in cerca di vite e guadagni migliori in Occidente.
Oggi un’atmosfera surreale ha trasfigurato questa città bomboniera. Statue e monumenti sono imballati per proteggerli dalle bombe, pub e gallerie d’arte sono diventati officine di guerra dove i giovani fabbricano armature da difesa per i soldati sul fronte, mentre sui binari dell’elegante stazione in Jugendstil si muove il girone infernale dei profughi in fuga verso Ovest.
Di Pierluigi Mennitti
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