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L’Occidente aiuti le minoranze

In Iran circa metà della popolazione è formata da minoranze etniche. Se l’Occidente le sostenesse sarebbe possibile un regime change nel Paese

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L’Occidente aiuti le minoranze

In Iran circa metà della popolazione è formata da minoranze etniche. Se l’Occidente le sostenesse sarebbe possibile un regime change nel Paese

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In Iran circa metà della popolazione è formata da minoranze etniche. Se l’Occidente le sostenesse sarebbe possibile un regime change nel Paese

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In Iran circa metà della popolazione è formata da minoranze etniche. Se l’Occidente le sostenesse sarebbe possibile un regime change nel Paese

Gerusalemme – L’attacco che Israele sta preparando contro l’Iran, in risposta a quello balistico iraniano del primo ottobre scorso, potrebbe essere un’opportunità per le varie etnie iraniane d’insorgere contro il regime islamico. Himdad Mustafa, esperto politico e collaboratore del Middle East Media Research Institute (Memri), spiega a “La Ragione” che la chiave per qualsiasi cambio di regime in Iran sta nelle sue minoranze etniche, emarginate e violentemente represse nel corso degli anni. Per questo motivo comprendere ciò che viene definita “la periferia” dell’Iran, dove vivono le sue minoranze etniche, è essenziale per delineare una strategia contro la leadership della Repubblica Islamica. Se osserviamo infatti l’aspetto demografico del Paese, è possibile notare che la popolazione iraniana (più o meno 87 milioni di abitanti) è composta per circa una metà di etnia persiana che vive prevalentemente nell’Iran centrale, mentre l’altra metà è formata da curdi, baluchi, azeri, arabi ahwazi, turkmeni, lurs e gruppi etnici del Caspio.

Nel 2022 le forti rivolte contro il regime iraniano non erano guidate soltanto dalle donne, ma anche dalle minoranze etniche. I primi moti iniziarono infatti nella regione del Kurdistan, dopo che la giovane ragazza curdo-iraniana Jina Amini (chiamata “Mahsa” solo nei documenti ufficiali iraniani, che non permettono la registrazione di nomi curdi) fu torturata e uccisa dalla ‘polizia della morale’ della Repubblica Islamica. Non è pertanto un caso che lo slogan delle rivolte (“Donna, Vita e Libertà”) sia proprio un motto curdo, «Jin, Jiyan, Azadi» (tradotto poi in lingua farsi come «Zan, Zendegi, Azadi»; fra l’altro, il nome Jina deriva da Jiyan e significa “vita”). Soltanto poche settimane dopo l’uccisione di Jina (questo è il nome cui sua madre la chiamava e che è stato scritto sulla sua tomba, assieme alla dedica in curdo: «Jina giyan, to namiri, nawit ebete remiz», Jina, anima mia, non morirai. Il tuo nome diventerà un simbolo), il regime iraniano portò avanti il “massacro di Zahedan” (conosciuto anche come il “venerdì sanguinoso”) contro i baluchi, uccidendone in un giorno più di cento. Adesso che l’attacco israeliano si sta avvicinando, è importante per l’Occidente aiutare a unire le minoranze, che sono sempre state le più determinate e agguerrite nel metter fine alla dittatura iraniana. È dalla metà degli anni Duemila, dopo una serie di violenti scontri fra l’Iran e i vari gruppi etnici presenti nel Paese, che le élite militari e politiche iraniane temono un possibile scenario di ‘guerra ibrida’ che comprenderebbe proteste nazionali diffuse in coincidenza con un attacco militare esterno su target del governo centrale. Questo potrebbe pertanto essere il tempo giusto per un regime change. «Se l’intero Paese si ribellasse, il governo ritirerebbe le sue forze dalle regioni periferiche come il Kurdistan verso l’Iran centrale e Teheran. Questo sarebbe il momento in cui l’Occidente dovrebbe sostenere i curdi, i baluchi e altri gruppi etnici per rovesciare il regime» afferma Mustafa.

L’opposizione iraniana, persiana e non, deve adesso unirsi in una coalizione attorno a una piattaforma comune. Questa però potrà formarsi soltanto se viene sostenuto, anche dall’Occidente, un futuro democratico confederalista per l’Iran.

Di Anna Mahjar Barducci

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