L’origine della propaganda di Mosca contro l’Occidente
L’origine della propaganda di Mosca contro l’Occidente
L’origine della propaganda di Mosca contro l’Occidente
È la “chiamata alle armi” per eccellenza, il rendez-vous della patria e del popolo sotto la bandiera. Simbolo, in questo caso, non di interessi geostrategici, economici o politici sempre meno richiamati da Putin nei suoi interventi, ma di un’identità. Di una comunione di valori e intenti di cui la Russia di Putin si fa massima interprete, fino a sovrapporsi ai pensieri e ai desideri dei singoli cittadini. Se ci riflettiamo per un istante, è il terribile schema che nel XX secolo l’Europa ha sperimentato sin troppo bene. Del tutto indifferente all’indirizzo politico del leader fu fascista, comunista, nazista e sempre foriero di atroci conseguenze. Vale di per sé, fa leva sul nazionalismo primigenio, che in Russia ha radici antichissime e mai sopite. Riconoscerle non significa sovrapporre in alcun modo un intero popolo ai desideri di un uomo, ossessionato da sogni di grandezza. Tanto meno dividere responsabilità che sono e restano di Vladimir Putin, non dei cittadini russi. Eppure, non potremmo capire fino in fondo le medaglie ai presunti carnefici di Bucha, senza ricordare quale sia la storia della Russia. Perennemente in tensione fra un’attrazione fortissima per la cultura e le arti occidentali – San Pietroburgo è un’esperienza onirica per noi italiani al primo viaggio, tanto ci appare familiare – e un’insopprimibile ansia di potere imperialista, che è figlia legittima della sindrome d’assedio.
La Russia zarista, quella sovietica, il Paese di Putin con cui dobbiamo fare oggi i conti, tutti da sempre convinti che a Ovest si trami qualcosa contro San Pietroburgo prima e Mosca dopo. Nella migliore delle ipotesi, che da questa parte del defunto Muro si disprezzino il potere e la volontà russi. Dobbiamo ricordarlo sempre, per capire anche l’ossessione dello zar e dell’Armata per la città-martire di Mariupol e per quella sacca di resistenza, sotto ciò che resta di un’acciaieria. È come se un intero Paese stesse rivivendo un deja vu alla rovescia: a Stalingrado – la più grande vittoria anche propagandistica della Seconda guerra mondiale insieme all’assedio fallito a Leningrado – la sesta armata tedesca di Von Paulus fu costretta a un’ultima, disperata e vana resistenza fra industrie ridotte in macerie. Oggi, in un contesto non troppo diverso, è l’Armata l’esercito invasore, come quello nazista lo fu ottant’anni fa, ma i simboli mantengono intatta la loro potenza evocativa nella Russia di Putin.
Ecco perché la propaganda – fondamentale in qualsiasi conflitto – ha assunto in questa guerra un peso incredibile. Si mente spudoratamente, come se fossimo nella prima metà del Novecento e non nell’era della connessione globale in cui la disfatta di una divisione, l’affondamento di un incrociatore, i crimini di un reparto non possono essere nascosti. Fa nulla, si prova lo stesso, con assoluto disprezzo non solo della realtà ma anche del senso del ridicolo. Perché nulla è più importante della simbologia e della narrazione scelte per sostenere questa guerra. Putin lo sa bene e le usa come arma per eccellenza nel conflitto contro l’ordine internazionale e i nostri valori.
di Fulvio GiulianiLa Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
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