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Mosca

L’aria strana che si respira a Mosca

È strana l’aria che si respira a Mosca a poco più di una settimana dall’ammutinamento di Progozhin
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L’aria strana che si respira a Mosca

È strana l’aria che si respira a Mosca a poco più di una settimana dall’ammutinamento di Progozhin
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L’aria strana che si respira a Mosca

È strana l’aria che si respira a Mosca a poco più di una settimana dall’ammutinamento di Progozhin
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È strana l’aria che si respira a Mosca a poco più di una settimana dall’ammutinamento di Progozhin

Mosca – È strana l’aria che si respira nella capitale, in questa estate piovigginosa che non permette ancora ai russi di trasferirsi nelle dacie, le casette di campagna dei sobborghi. Una metafora metereologica di quanto succede nella sfera politica. È passata più di una settimana dall’ammutinamento del signore della guerra Evgenij Prigozhin e ancora domina l’incertezza nelle misteriose sale del Cremlino e del Ministero della Difesa.

Un’incertezza che all’inizio di questa nuova crisi interna ha spinto chi voleva abbandonare in fretta il Paese, di fronte al rischio di una guerra civile fra le élite, a pagare anche 9mila euro per un biglietto aereo di sola andata per raggiungere destinazioni come Yeravan (la capitale armena) o Tel Aviv. Si è trattato della terza ondata della diaspora, iniziata il 24 febbraio 2022 con l’inizio della guerra e proseguita il 21 settembre scorso con l’inizio della mobilitazione. Nessuno sa di preciso quanti russi maschi abbiano abbandonato il Paese dopo l’inizio dell’“operazione speciale” (un milione, un milione e mezzo?) ma se ne conoscono i tratti sociali. Del resto sono i nostri vicini di casa, le persone che vedevi al supermercato tutti i giorni e che non incontri più. L’identikit è presto fatto: soprattutto giovani maschi e appartenenti al ceto medio urbano; lavoratori qualificati nel settore delle Intelligent Technology, che conoscono le lingue e politicamente orientati verso l’opposizione liberal di Alexej Navalnij. Poco più che adolescenti, insomma, che non hanno nessuna intenzione di morire in una trincea del Donbas.

I sondaggi del primo canale tv di Stato, proposti non più di tre giorni fa, sono impietosi con l’intelligenza del cittadino russo e parlano di un sostegno stabile per lo ‘zar’ immutato al 78%. In realtà, sottotraccia, le cose stanno cambiando in fretta. La paura inizia a farsi strada nel ventre molle dell’infinita provincia dell’impero, dove il consenso verso la guerra c’è stato eccome, soprattutto fra i settori sottoproletarizzati della lunga stagione della deindustrializzazione post sovietica. Il quotidiano della Confindustria russa “Kommersant” ha appena reso noto che Poste Russia ha deciso di mandare a casa 30mila dei 330mila dipendenti e che non ha pagato gli stipendi di maggio. «Stanno alla fine saltando le catene della logistica e dei sistemi di pagamento e ne risentiamo» ha confidato al giornale un dirigente dell’azienda. Finora per molti l’alternativa, o l’àncora di salvataggio, è stato davvero l’arruolamento nelle file dei foreign fighter della Wagner, che pagavano fino a 4mila dollari al mese per andare a combattere non soltanto in Ucraina ma anche nella Repubblica Centroafricana o in Siria, quando fuori dalla capitale gli stipendi raggiungono a stento i 500 dollari.

Intanto Alina, che viene tutti i giorni a Mosca con il trenino per fare la barista, scruta il cielo e si chiede se quest’anno potrà mai mettere una gonna corta. «Mi piacerebbe vedere un giorno la vostra bella Italia» sospira, mentre sullo schermo passano le immagini mute del ministro della Difesa Shoigu.

di Yurii Colombo

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