“Non lasciateci soli nella lotta”
“Non lasciateci soli nella lotta”: le voci di alcuni giovani turchi che hanno partecipato alle proteste contro Erdoğan

“Non lasciateci soli nella lotta”
“Non lasciateci soli nella lotta”: le voci di alcuni giovani turchi che hanno partecipato alle proteste contro Erdoğan
“Non lasciateci soli nella lotta”
“Non lasciateci soli nella lotta”: le voci di alcuni giovani turchi che hanno partecipato alle proteste contro Erdoğan
“Non lasciateci soli”. Le piazze turche sono gremite da settimane per le proteste contro l’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, principale oppositore di Erdoğan. Ho intervistato otto ragazzi e ragazze che ho conosciuto in anni di progetti di cooperazione europea: alcuni di loro vivono tra Ankara, Izmir e Istanbul, altri sono all’estero da anni, uno è tornato per prendere parte alle proteste. Chiedono tutti di restare anonimi tranne il 24enne fotografo Barlas Helvaci, tra i 301 arrestati durante le manifestazioni proprio per i suoi scatti.
Gli intervistati (tranne due) hanno meno di 30 anni. Sono studenti o giovani lavoratori. Accomunati da una certezza: la Turchia di oggi non offre loro alcun futuro. Hanno visto i loro amici picchiati e c’è chi racconta di donne molestate durante le retate. Eppure continuano a scendere in piazza. Perché? «Non abbiamo più nulla da perdere. Abbiamo perso la sicurezza, i diritti, la possibilità di sognare» dice Selin. Tutto è iniziato con la revoca del diploma a İmamoğlu e il suo arresto. Ma la rabbia nasce da una verità più profonda: in Turchia basta una firma per toglierti tutto. «Anche la tua laurea, la tua casa, il tuo matrimonio» spiega Emre.
Molti temono una deriva autoritaria definitiva: «Se vinciamo potremmo diventare una democrazia, ma se perdiamo finiremo come la Russia» riflette Can. Intanto Putin e Trump sostengono Erdoğan, mentre l’Europa – accusano – resta in silenzio: «Ci sembra di essere dentro “Star Wars”, dobbiamo lottare contro l’Impero…» scherza Can. Tra le voci raccolte, quella femminile è la più netta: «La giustizia in Turchia non protegge noi donne, migliaia di donne vittime di stupro o violenza non hanno mai ottenuto giustizia». I diritti di cui godono oggi, aggiunge una delle mie intervistate, «sono frutto della repubblica fondata da Atatürk. Posso votare, parlare, studiare grazie a lui. E ora Erdoğan vorrebbe diventare come lui, ma togliendoci quei diritti. Non glielo permetteremo».
Le proteste nascono sui social, si alimentano nelle strade e si trasformano in boicottaggi. Instagram, i canali Telegram, i comunicati delle opposizioni: tutto serve a coordinarsi, in un Paese dove il diritto a manifestare è formalmente garantito ma sistematicamente violato. «La vera forza l’abbiamo sentita quando gli studenti dell’Università di Istanbul hanno abbattuto le barricate. Da lì è cambiato tutto. Abbiamo capito che potevamo farcela. Fino alle 23 si scherza coi poliziotti, poi quegli stessi con cui avevi riso fino a poco prima erano lì a picchiarti» racconta Tamtu. I manganelli non fanno distinzioni: «Il più anziano degli arrestati avrà avuto 22 anni».
Anche Barlas, il fotografo finito in manette, ci ha raccontato di aver visto in quei giorni centinaia di giovani nelle carceri, schiacciati dalle pressioni, dalle domande e dalle intimidazioni della polizia. Selin racconta di come abbia sentito di «persone che stavano semplicemente mangiando in un ristorante e sono state arrestate perché “sembravano manifestanti”». Tamtu conclude lanciando un appello: «Turchia, Georgia, Serbia avevano grandi speranze di entrare in Europa e di prosperare. Ma, a causa della corruzione e dei governi autoritari, si sono allontanati da quel sogno. L’unica cosa che l’Ue ha fatto è stata parlare di “fatica da allargamento”, lasciando che questi Paesi scivolassero via, limitandosi a generiche dichiarazioni contro le violazioni dei diritti umani. Per favore, non lasciateci soli».
Di Giulio Albano
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