Pace e libertà non sono gratis
L’Europa ha goduto i dividendi del più lungo periodo di pace della propria storia secolare. Dividendi, pagati dagli Stati Uniti
Pace e libertà non sono gratis
L’Europa ha goduto i dividendi del più lungo periodo di pace della propria storia secolare. Dividendi, pagati dagli Stati Uniti
Pace e libertà non sono gratis
L’Europa ha goduto i dividendi del più lungo periodo di pace della propria storia secolare. Dividendi, pagati dagli Stati Uniti
L’Europa ha goduto i dividendi del più lungo periodo di pace della propria storia secolare. Dividendi, pagati dagli Stati Uniti
There is no such thing as a free lunch, ovvero nessuno dà niente per niente. Insomma, non ci sono pasti gratis, ripete da qualche secolo l’etica protestante che anima lo spirito pubblico americano. Se proviamo a sostituire il lunch con peace oppure, meglio ancora, con freedom l’effetto non cambia. La libertà e la pace gratis (in violazione di quell’etica) l’Europa e i suoi abitanti le hanno avute per molti decenni dopo il 1945, dando per ovvio ciò che ovvio ha smesso di essere da qualche tempo. L’Europa ha goduto ampiamente i dividendi del più lungo periodo di pace della propria storia secolare. Dividendi, scopriamo con simulato stupore, pagati con i soldi impiegati dagli Stati Uniti per conservarsi prima potenza militare del pianeta.
Donald Trump, si sa, non è un cultore delle finezze diplomatiche. Alle quali preferisce un linguaggio per così dire diretto, all’occorrenza perfino ruvido con gli alleati. Sarebbe però oltremodo ingiusto attribuire a lui la colpa di imporre ai Paesi dell’Unione europea di riscrivere il proprio bilancio per fare posto a più consistenti spese per la Difesa. Prima di lui Joe Biden e, prima di Biden, Barak Obama avevano posto il problema di un riequilibrio dei contributi nazionali per finanziare la sicurezza e la difesa dei Paesi Nato.
È al vertice Nato di Newport, nel Galles (settembre 2014), che è stata formalizzata la proposta che vincola i 32 Paesi membri ad accrescere il proprio bilancio della Difesa fino al 2% del Pil. Livello ritenuto insufficiente dal nuovo segretario Mark Rutte. Quell’anno la Russia aveva annesso la Crimea, con un referendum farlocco mai riconosciuto dai Paesi occidentali. Nel 2014 il bilancio della Difesa italiana rappresentava l’1,1% del Pil, uno dei livelli più bassi.
L’aggressione di Putin all’Ucraina ha fatto tabula rasa di tutti gli alibi, le riserve e le giustificazioni fin qui addotti dai Paesi Nato inadempienti. L’Italia insieme ad altri 7 membri. In tutti è maturata la consapevolezza che la guerra decisa dalla Russia abbia portato a un cambio radicale di scenario. Le cui conseguenze si potranno misurare soltanto nei prossimi anni ma la cui minaccia è ben visibile, qui e ora. La determinazione di Vladimir Putin nel portare a termine “l’operazione speciale di polizia” (se a un giornalista russo scappa il termine “guerra” lo aspetta il primo treno per Irkutsk) ha messo l’Unione europea di fronte alla realtà quale non aveva più conosciuto dopo il 1945.
Come fronteggiare la rinnovata aggressività imperiale di Mosca? Si sta parlando di un Paese che nel 2024 (sono dati della World Bank) ha destinato il 6% del Pil alle spese militari. Quella cifra coincide con il 32,5% del bilancio statale, in tutto uguale alla spesa complessiva per sanità, istruzione e assistenza sociale. Putin ha investito 145 miliardi di dollari per le Forze armate. I Paesi Ue hanno destinato 279 miliardi nel 2023 (dati Agenzia europea difesa), cifra che dovrebbe salire a 326 miliardi nel 2025. L’Europa gode però di un duplice svantaggio. È ancora basso il livello di integrazione nella produzione dei sistemi d’arma. E, soprattutto, rimangono complicate le procedure operative del comando integrato Nato.
Al pari di ogni dittatore, il regime di Vladimir Putin investe sulla guerra come assicurazione per la propria durata al potere. Al contrario, le democrazie hanno assoluta necessità della pace e della sicurezza per crescere e prosperare. Di fronte alla minaccia della Russia le democrazie devono fronteggiare l’ostilità diffusa nelle opinioni pubbliche, alimentata anche dalla guerra ibrida di Mosca, convinte come sono che la pace in qualche modo pioverà dal cielo. Come ricorderanno i meno giovani, era così anche all’inizio degli anni Ottanta del Novecento. Quando l’America decise di rispondere alla minaccia sovietica dei missili SS-20 installando in Europa batterie di missili Pershing e Cruise. Le piazze si riempivano di folle urlanti «Meglio rossi che morti». Si sa com’è finita. Non diventammo rossi e nessuno morì per un missile sovietico. All’epoca il giovane Putin era responsabile dell’ufficio del Kgb a Berlino. E si vide crollare addosso il Muro.
Di Massimo Colaiacomo
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