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Poca tregua, nessuna strategia

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Siamo tutti sollevati (e scettici) dalla tregua di 60 giorni (tutti ancora da definire e gestire) e dall’ipotesi di un cessate del fuoco. Ma la pace?

Poca tregua, nessuna strategia

Siamo tutti sollevati (e scettici) dalla tregua di 60 giorni (tutti ancora da definire e gestire) e dall’ipotesi di un cessate del fuoco. Ma la pace?

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Poca tregua, nessuna strategia

Siamo tutti sollevati (e scettici) dalla tregua di 60 giorni (tutti ancora da definire e gestire) e dall’ipotesi di un cessate del fuoco. Ma la pace?

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Siamo tutti sollevati (e scettici) dall’ipotesi di un cessate del fuoco in una terra martoriata oltre ogni limite immaginabile e tollerabile

Un istante dopo, però, abbiamo l’obbligo di guardare alla sostanza delle cose e di saper proiettare lo sguardo oltre l’attimo. Oltre i 60 giorni annunciati, tutti ancora da definire e gestire. Soprattutto privi di un qualsiasi sbocco credibile se non in una “pace” – parola all’evidenza fuori contesto nella Striscia di Gaza – almeno in una tregua a lungo termine. Una precondizione di pace, mettiamola così, che possa donare uno straccio di prospettiva a 2 milioni di persone stremate e private dell’idea stessa di futuro. È qui che immancabilmente si incarta la presunta strategia del governo di Benjamin Netanyahu e a ruota del garante americano. 

Ci siamo già passati: ricorderete le tavolate festanti in occasione del Ramadan, organizzate fra le macerie di mesi di bombardamenti. Pochi giorni dopo, ricominciò il martellamento dal cielo con quell’unico e irraggiungibile obiettivo che il governo di Gerusalemme si è posto infischiandosene della realtà e delle conseguenze nel lungo periodo: uccidere sino all’ultimo terrorista di Hamas. 

Figurarsi con il solo bombardamento dal cielo di un’organizzazione di spietati tagliagola che da decenni si attrezza e organizza con l’unico scopo di ammazzare quanti più ebrei possibile. Strutturata in modo da sopravvivere sempre e comunque, partendo proprio dalla scontata prospettiva dell’eliminazione fisica dei propri capi. 

È tale la distanza fra le parole e la realtà che alla fine è lo stesso Presidente degli Stati Uniti Donald Trump a certificare nei fatti il riconoscimento di Hamas – una delle organizzazioni più sanguinarie e disgustose sulla faccia della terra – come necessario interlocutore. 

Oggi per il cessate il fuoco, domani per la tregua e poi chissà. Alla faccia dell’eliminazione fino all’ultimo terrorista… e Hamas prende tempo.

Nel frattempo, il veleno rappresentato dalla coalizione di ultradestra su cui Netanyahu fonda la propria sopravvivenza politica continua a diffondersi nel corpo di Israele: i coloni fuori controllo in Cisgiordania si dedicano con regolarità alla caccia al palestinese, con il dichiarato obiettivo di scacciarne quanto più possibile e rendere occupabile sempre più territorio. Un disegno esplosivo, perseguito con lucidità e volontà dai coloni e dai loro rappresentanti alla Knesset e nel governo, al punto dal non preoccuparsi delle conseguenze e arrivare ad assaltare gli stessi militari israeliani, mentre i leader ultras cercano di sabotare il cessate il fuoco. 

Quale leader di un popolo bombardato senza pietà e sottoposto al rischio quotidiano di essere cacciato dalla propria casa accetterebbe di imbastire un dialogo a lungo termine con un governo responsabile di una simile “strategia”? 

Questo è il punto in cui siamo: un passaggio in cui tutto ciò che resta è spacciare per straordinario il minimo sindacale.

di Fulvio Giuliani

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