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Protagonisti si diventa quando la storia lo dice

Gli slovacchi hanno deciso di conferire al presidente Zelensky il Premio Alexander Dubček, simbolo di libertà e speranza. Il popolo ucraino ha scelto di combattere per la libertà, per non rischiare di fare la stessa fine della rivoluzione mancata di Praga.
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Protagonisti si diventa quando la storia lo dice

Gli slovacchi hanno deciso di conferire al presidente Zelensky il Premio Alexander Dubček, simbolo di libertà e speranza. Il popolo ucraino ha scelto di combattere per la libertà, per non rischiare di fare la stessa fine della rivoluzione mancata di Praga.
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Protagonisti si diventa quando la storia lo dice

Gli slovacchi hanno deciso di conferire al presidente Zelensky il Premio Alexander Dubček, simbolo di libertà e speranza. Il popolo ucraino ha scelto di combattere per la libertà, per non rischiare di fare la stessa fine della rivoluzione mancata di Praga.
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Gli slovacchi hanno deciso di conferire al presidente Zelensky il Premio Alexander Dubček, simbolo di libertà e speranza. Il popolo ucraino ha scelto di combattere per la libertà, per non rischiare di fare la stessa fine della rivoluzione mancata di Praga.
Non è una questione di simpatie o di antipatie, ma di libertà e di chi è disposto – con coraggio – a difenderla. Nella storia i protagonisti infatti non arrivano (quasi) mai dal progetto di esserlo bensì dal fatto che sono lì, in quel momento, disposti a dedicarsi a una battaglia in cui credono. È questo il caso del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, da settimane guida e simbolo della resistenza ucraina all’invasione russa. In Occidente, dove grazie alla democrazia abbiamo una stampa libera e libertà di opinione, alcuni sollevano le loro perplessità su Zelensky. C’è chi cerca nel suo passato d’attore, chi rimugina sulle sue proprietà e amicizie quasi a cercare una Zelenskopoli che ne attutisca l’eroismo nel resistere. Tempo perso. Davanti alla storia nel suo consumarsi non vi è infatti spazio per l’osceno, il nascosto alla vista cui tanto siamo affezionati. Perché conta ciò che va in scena e quello che sta andando in scena, da settimane, è chiaro: l’invasione militare dei russi di uno Stato libero, l’Ucraina. Lo hanno capito bene gli slovacchi che hanno deciso di conferire al presidente Zelensky il Premio Alexander Dubček, il leader cecoslovacco protagonista nel secolo scorso di riforme e aperture rispetto alla dittatura comunista, cui l’Unione Sovietica mise fine mandando a Praga i carri armati e l’esercito. Insomma invadendo il Paese. Annunciando il riconoscimento a Zelensky, il primo ministro slovacco Eduard Heger ha sottolineato che il Premio Alexander Dubcek è un simbolo di libertà e di speranza e che oggi il presidente russo Vladimir Putin «ha deciso di ripetere in Ucraina ciò che l’Unione Sovietica ha fatto in Cecoslovacchia nel 1968 e sta usando la forza militare per sopprimere il desiderio di democrazia». Le parole di Heger inducono a un supplemento di riflessione. I Paesi dell’Est europeo, quelli che più hanno subìto il giogo del potere sovietico durante il comunismo e il Patto di Varsavia, son quelli che oggi più schiettamente insistono sulla necessità degli ucraini di resistere all’invasore. Nel 1968, in Cecoslovacchia, Dubček al momento dell’invasione sovietica scelse di non chiamare il suo popolo alla resistenza. Avrebbe potuto, ma i tempi erano profondamente diversi da quelli attuali. Il mondo era spaccato dalla Guerra fredda e gli equilibri usciti da Yalta avevano messo la Cecoslovacchia nel blocco sovietico, con l’Urss che si sentiva legittimata a mantenere quell’ordine. Oggi tutto questo non esiste più. E ciò deve far riflettere quanti, e non sono pochi in Occidente, van sostenendo che gli ucraini dovrebbero non resistere. Zelensky e il suo popolo hanno invece scelto di combattere per la propria libertà. Per non fare la stessa fine della rivoluzione mancata di Praga, con la resa ai sovietici che portò alla Cecoslovacchia altri vent’anni e passa di dittatura. di Massimiliano Lenzi

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