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Raccontare, in modo reale, la guerra in Ucraina

Venerdì s’è celebrata in Ucraina la giornata dedicata alla memoria dei giornalisti che sono morti mentre svolgevano il proprio lavoro

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Raccontare, in modo reale, la guerra in Ucraina

Venerdì s’è celebrata in Ucraina la giornata dedicata alla memoria dei giornalisti che sono morti mentre svolgevano il proprio lavoro

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Raccontare, in modo reale, la guerra in Ucraina

Venerdì s’è celebrata in Ucraina la giornata dedicata alla memoria dei giornalisti che sono morti mentre svolgevano il proprio lavoro

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Venerdì s’è celebrata in Ucraina la giornata dedicata alla memoria dei giornalisti che sono morti mentre svolgevano il proprio lavoro

Mlynky – Venerdì s’è celebrata in Ucraina la giornata dedicata alla memoria dei giornalisti che sono morti mentre svolgevano il proprio lavoro. Secondo l’Unione nazionale dei giornalisti ucraini, dall’inizio dell’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Federazione Russa, almeno 99 operatori del nostro settore hanno perso la vita sotto i colpi russi: 17 giornalisti, 9 operatori dei media e 73 rappresentanti dei mass media mobilitati nelle file delle Forze armate ucraine.

Secondo quanto stimato dall’organizzazione Reporter Senza Frontiere (Rsf), a tale macabro bilancio andrebbero ad aggiungersi almeno altri 35 giornalisti rimasti feriti mentre stavano registrando reportage dal campo, soprattutto vicino alla linea di fronte, come spesso facciamo anche noi. Almeno 12 giornalisti sono stati arrestati dalle Forze armate russe nei territori dell’Ucraina che hanno illegalmente occupato e alcuni di loro hanno ricevuto condanne crudeli in seguito a processi sommari. Due colleghi risultano attualmente dispersi: Victoria Roshchyna – che era già stata rapita nel 2022 – e Dmytro Khyliuk, sparito e forse detenuto in Russia. Rsf ha presentato alla Corte penale internazionale, alla Procura ucraina e a diversi tribunali internazionali almeno 18 denunce per crimini di guerra compiuti contro persone che svolgono la nostra stessa professione che sono state rapite, ferite, prese in ostaggio, torturate o sono rimaste coinvolte in bombardamenti.

Secondo l’Institute for Mass Information (Imi), a causa dell’occupazione russa, della mobilitazione e della mancanza di personale, dall’inizio della guerra almeno 233 media ucraini hanno dovuto chiudere i battenti per motivi economici. I russi hanno inoltre colpito deliberatamente antenne, apparecchiature radiofoniche, sedi degli organi d’informazione, hotel frequentati da inviati di guerra e altri civili, press car, fixer e collaboratori esterni. Noi stessi siamo riusciti a scampare miracolosamente un agguato delle ДРГ (sabotatori e incursori) russe, costato la vita a due civili inermi crivellati di colpi mentre guidavano la loro auto. I tetti delle nostre case sono rimasti gravemente danneggiati prima dai frammenti d’un missile Kinzhal e poi da quelli d’un drone e molti degli hotel e degli appartamenti in cui siamo stati ci hanno fatto scudo con le loro mura ad altrettante piogge di schegge e lapilli infuocati. Alcuni di essi non esistono più. Per non parlare delle innumerevoli volte in cui ci siamo trovati al fronte, condividendo coi soldati o i civili in fuga momenti drammatici come il crollo d’un edificio, la perdita di familiari e il ferimento grave di colleghi.

Per queste ragioni riteniamo particolarmente gravi e lesive del nostro lavoro e della nostra professione – oltre che disdegnose del rischio che corriamo per restituire una cronaca fedele ai fatti, dal campo – le accuse recentemente mosse in un’intervista a “MowMag” da Andrea Sceresini ad alcuni colleghi (di cui non fa i nomi), i cui articoli verrebbero secondo lui «passati al setaccio da giornalisti italiani o ucraini che abitano in Italia» che – a suo dire – segnalerebbero «tutto» (non si capisce bene cosa) a una fantomatica «lobby dei fixer».

Come ha fatto l’amico e collega Cristiano Tinazzi in un post pubblico sul suo profilo social, anche noi riteniamo che tali gravissime affermazioni non possano passare in silenzio. Nessuno – nemmeno i direttori di questo giornale – ci ha mai esortato a recarci in un luogo piuttosto che in un altro o a trattare una tematica piuttosto che un’altra. Nessuno ha mai «passato al setaccio» i nostri articoli, modificato o censurato i nostri contenuti o pilotato in alcun modo i nostri reportage dal campo – per registrare i quali rischiamo ogni istante, da anni, le nostre vite – né qui in Ucraina né in Italia. Per quanto pericoloso e difficile, il lavoro che svolgiamo è frutto d’una nostra scelta e rispecchia fedelmente ciò che vediamo e viviamo. Non esistono «lobby dei fixer» né revisori o organizzazioni che controllano il nostro operato: quel che leggono i nostri lettori corrisponde esattamente a ciò che di nostro pugno abbiamo scritto.

Per accedere alle zone di guerra occorre essere accreditati, certo, così com’è necessario attenersi a un codice etico che non rispecchia altro che il buon senso. Non ottemperare a queste semplici e del tutto ovvie raccomandazioni significa esporre sé e gli altri a rischio di vita. Fotografare o segnalare la posizione dei bunker in cui i civili trovano riparo, la posizione o altri dettagli delle forze che sono impiegate in campo per contrastare questa brutale e ingiustificata aggressione sarebbe delittuoso e incosciente. Non si tratta di regole ma di buon senso. Fra noi colleghi certo che ci si conosce, si parla e ci si confronta. Si rimane stupiti quando qualcuno – che spesso e volentieri non è neanche qui – scrive di cose non corrispondenti ai fatti, distorte o fortemente falsate in chiave politica, certo. Si discute anche di quello, così come capita di segnalarsi fake news e corbellerie varie. Ciò avviene alla luce del sole e talvolta soprassedere su certe sciocchezze è talmente faticoso da dover dedicare buona parte dello spazio a disposizione in pagina al debunking di quelle baggianate. Ma da qui a pensare che chi rischia la vita per restituire una cronaca fedele della realtà possa accettare di vedersela riscritta da qualcun altro dietro una scrivania a migliaia di chilometri di distanza, passa un abisso.

di Alla Perdei e Giorgio Provinciali

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