Da anni la Cina sta aumentando presenza e investimenti in Africa, territorio interessante per le risorse di cui dispone. Quella che all’inizio sembrava essere un’occasione di sviluppo però si sta trasformando in un incubo.
Pare che i cinesi stiano scappando di soppiatto dall’Africa o per lo meno stiano riducendo fortemente la propria esposizione nell’area. Per la verità, il viaggio con cui dal 4 all’8 gennaio il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha iniziato il 2022 visitando Eritrea, Kenya e Comore sembrerebbe indicare altrimenti. E nello stesso senso appare la firma della Convenzione del piano di attuazione della Belt and Road Initiative tra il Marocco e la Cina, avvenuta in videoconferenza lo scorso 6 gennaio.
Al di là dei gesti, esiste tuttavia un’altra realtà indicata dalle fredde cifre. E queste – ricostruite ad esempio dalla China-Africa Research Initiative della Johns Hopkins University, ora riportate dal “Financial Times” – indicano come la Repubblica Popolare abbia complessivamente distribuito nel Continente 148 miliardi di dollari nel periodo 2000-2018 (da quasi niente a oltre un quinto di tutti i prestiti nella regione) ma che questi – dopo aver toccato nel 2016 la cifra annuale record di 29,5 miliardi di dollari – già nel 2019 fossero calati a 7,6. E presumibilmente negli ultimi due anni sono diminuiti ulteriormente: sia per il rallentamento dell’economia mondiale dovuto all’emergenza Covid, sia a causa della crisi finanziaria innescata in patria dal colosso immobiliare Evergrade.
Ma il problema esiste anche dal punto di vista dell’Africa, per la crescente difficoltà dei governi locali a pagare debiti-trappola dalle clausole oscure che i cinesi sono maestri a inventare. Da una parte, dunque, le banche cinesi iniziano a starci più attente. Dall’altro, anche gli africani iniziano a fidarsi di meno, perché in diversi Paesi si è affermato un minimo di democrazia e a ogni campagna elettorale i prestiti cinesi diventano sempre più un tema politico scottante. Anche in Kenya, dove si voterà il prossimo agosto, e infatti Wang Yi sarebbe andato là anche per provare a rassicurare gli elettori sulla costruzione di una ferrovia su cui Pechino ha già investito 4,7 miliardi di dollari. Peccato che la confinante Uganda abbia dovuto passare ai cinesi il controllo dell’aeroporto internazionale di Entebbe per non essere riuscita a rimborsare un prestito della Exim Bank e che l’altra confinante Etiopia – in cui la Cina ha investito e delocalizzato massicciamente – ora si trovi in piena guerra civile.
Appare improbabile che Pechino sgomberi del tutto il campo. Però le iniziative di inizio 2022 suggeriscono l’idea di una maggior concentrazione su pochi Paesi maggiormente strategici, evitando di distribuire a tappeto soldi che sarà poi difficile recuperare. D’altra parte nel continente la Cina ha ormai già messo le mani su quasi tutto quello che le interessava.
Contemporaneamente, lo scorso primo dicembre la Commissione europea e l’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza Ue hanno lanciato Global Gateway, «una nuova strategia europea per promuovere una connettività intelligente, pulita e sicura in materia digitale, di energia e di trasporti e rafforzare i sistemi sanitari, dell’istruzione e della ricerca in tutto il mondo» che metterà in campo 300 miliardi di euro di investimenti tra il 2021 e il 2027. Per aiutare la grande transizione ecologica, ma anche per offrire agli africani una possibile concreta alternativa rispetto agli schemi predatori di Pechino.
di Maurizio Stefanini
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Tag: politica
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