The Queen
The Queen
The Queen
È morto il Novecento. Con l’addio alla regina si chiude definitivamente l’ultimo capitolo ancora aperto del secolo più lungo (altro che breve). Il secolo degli orrori più efferati e delle peggiori turpitudini, ma anche il secolo in cui abbiamo letteralmente toccato il cielo con un dito.
La regina Elisabetta c’era e imparava, giovanissima erede al trono, negli anni in cui la Gran Bretagna rimase per un angosciante e breve periodo totalmente sola a ostacolare il mostro nazista. Era lì 27 anni più tardi, ormai regina da tanto, quando l’uomo sbarcò sulla Luna partendo da una Terra in cui era cambiato tutto. L’impero di Sua Maestà semplicemente non esisteva più, si era dissolto senza che nessuno a Londra potesse e in fin dei conti volesse realmente opporvisi. Eppure, proprio all’ombra del Big Ben il mondo – il nostro mondo, l’Occidente – era cambiato per sempre in tutte le sue manifestazioni esteriori e non solo (espressioni, moda, regole sociali). Lei, ancora giovane ma ferrea depositaria delle regole della monarchia, capì che nulla sarebbe più tornato come prima e provò a tendere la mano. Non sarebbe mai potuto bastare conferire il titolo di baronetto a quattro scapigliati di Liverpool e quel gesto oggi appare più ingenuo che altro, ma per un’intera esistenza Elisabetta ha avuto questa capacità: saper equilibrare i doveri della Corona – un profondissimo senso di responsabilità d’altri tempi – con la sensibilità di non girare il volto dall’altra parte. Men che meno davanti alla realtà che cambiava. Tutto con i suoi tempi, s’intende, senza mai uno strappo che potesse mettere a rischio l’istituzione. In fin dei conti, The Queen è stata una splendida professionista, molto prima che l’icona pop in cui si è inevitabilmente trasformata con il passare dei decenni.
Massima rappresentante di una realtà palesemente fuori dal tempo e se vogliamo dalla logica, Elisabetta non è stata solo il motore immobile di una gigantesca macchina di interesse popolare e mediatico. Ora che non c’è più (per quasi tutti noi c’è sempre stata), possiamo riflettere su quanto si debba anche a lei quello stato dell’anima che chiamiamo “Occidente”. Che gli orpelli monarchici siano perlopiù ridicoli o al massimo da riportare nella sfera delle “favole”, di cui comunque tutti abbiamo sempre bisogno, è un fatto. Chi più di Elisabetta ha interpretato in modo più genuino l’animo di un intero Paese (e che Paese)? Sarà che ebbe maestri straordinari, Winston Churchill su tutti e sin troppo facile da ricordare, sta di fatto che la regina ha incarnato per settant’anni un pezzo di quel mondo che un numero indefinito di dittatori, autocrati, avventurieri da strapazzo hanno cercato regolarmente di affondare, senza riuscirci.
Nessun ruolo politico, per carità, ma i simboli contano perché incidono direttamente nell’anima e da questo punto di vista ogni cittadino britannico (tecnicamente sarebbe un suddito di Sua Maestà, ma questa è veramente storia) dovrebbe dire grazie alla sua sovrana. Come chiunque viva da questa parte dell’allora cortina di ferro, che oggi un uomo ossessionato dalla sete di potere vorrebbe tornare a edificare a sua immagine e somiglianza. Perché se noi tutti ci riconosciamo in una serie di valori immutabili e intoccabili – pur dividendoci come sacrosanto su un’infinità di aspetti di minore rilievo – è perché amiamo il nostro mondo. E nel mondo che abbiamo vissuto e attraversato questa donna sempre più minuta e lontana dalle mode imperanti rappresentava un’intera storia, la storia di un Paese senza il quale non esisterebbe l’Occidente in quanto tale.
Da oggi di storia ne comincia un’altra per la Gran Bretagna, carica di insidie e incertezze a causa dei gravi errori politici degli ultimi anni, ma anche perché è venuta meno la figura intoccabile. Il collante di una nazione. Riflettiamoci, prima di dire addio alla regina del Novecento come a un fatto di costume.
di Fulvio GiulianiLa Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
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