Dal 1997 «attaccare briga e causare problemi» (xúnxìn zīshì) è in Cina un reato. Si potrebbe aggiungere che è IL reato, sicché è facile immaginare come una definizione tanto lasca si presti a paravento perfetto per incarcerare chiunque si voglia. L’introduzione di una simile legge in Italia, se possiamo essere onesti al riguardo, equivarrebbe d’altronde a condannare alla galera metà popolazione per il primo capo d’accusa e l’altra metà per il secondo.
Se la vaghezza della definizione si accompagna a una certa mitezza della pena – massimo cinque anni – essa viene comminata e irrogata come un avvertimento ai presunti facinorosi, spesso colpevoli invece di non condividere la linea del Partito comunista o di lamentarsi con un tono non apprezzato dal politbüro del presidente Xi. Una dissuasione a passetti che può sempre accelerare verso una sparizione improvvisa nell’arcipelago dei Laogai, i campi di rieducazione e lavori forzati in teoria aboliti nel 2013 ma ancora ben vivi come dimostra lo Xinjiang.
Tutto questo è quindi quello che deve affrontare un cittadino cinese quando scende a protestare: un sistema giudiziario ideato per la repressione unito alla più alta densità mondiale di telecamere di sicurezza, capaci di identificare i manifestanti nonostante indossino maschere e occhiali. Dopo il popolo iraniano, anche quello cinese mette così in imbarazzo gli abitanti della Russia, capaci di «attaccare briga e causare problemi» non con i loro aguzzini ma soltanto con i loro vicini.
Di Camillo Bosco
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