Le novità dell’assegno unico, destinato alle famiglie italiane con figli, sottolineano quanto sia importante smettere di trasferire soldi alle persone, e cominciare a finanziare servizi utili.
Rompere un idillio non è commendevole. Fare i guastafeste non è piacevole. Ma c’è qualcosa che non torna nella concezione e illustrazione dell’assegno unico, destinato alle famiglie italiane con figli. Agli interessi dei pargoli si dovrebbe prestare maggiore e meno approssimativa attenzione.
Positivi l’accorpamento e la semplificazione, in modo da sfoltire la giungla di assegni, bonus e assistenze varie. L’assegno unico è articolato secondo una griglia che raccoglie le diverse possibilità, graduato per reddito e aumentato in ragione di famiglie numerose o presenza di disabilità. Da questo punto di vista è stato fatto un buon lavoro. Le criticità sono altre. Intanto il fatto che lo Stato versa soldi alle famiglie fino al compimento del ventunesimo anno. Posto che anche per il voto per il Senato è stata cancellata quella soglia d’età, che era quella della assai vecchia maggiore età, ne discende che neanche da maggiorenni si perde il diritto al contributo, per il solo fatto di essere in vita. Forse non è una scelta saggia.
Il contributo massimo è di 175 euro al mese, per le famiglie il cui livello Isee (Indicatore di situazione economica equivalente) sia pari o inferiore a 15mila euro annui. Significa meno di 6 euro al giorno, che se quell’indice ha azzeccato e non è frutto di raggiro o evasione fiscale e contributiva, forse non risolvono granché. Suppongo che per ragioni di giustizia sociale si sia scelto di fare avere il contributo a tutti, ma così si finisce a quantificare in 50 euro quel che spetta a chi ha l’indicatore sopra i 40mila euro. Significa 1 euro e 60 centesimi al giorno. Dubito che chi li riceve sia in grado di accorgersene, oltre a essere all’evidenza inutili. Il tutto per una spesa che ammonta, a regime, a ben 19 miliardi. Si sarebbe potuti utilizzarli meglio.
C’è un interesse che hanno in comune tutti i nostri figli, che è un interesse comune anche di tutte le famiglie, quale che sia il loro livello di reddito: disporre di buone scuole, potere scegliere il tempo pieno, accompagnato da un buon servizio di mensa e allargato al tempo da dedicarsi allo sport, con appositi ed efficienti impianti, o allo studio oggi relegato nel settore delle spese private (ad esempio, ed è un’infamia per l’Italia, quello della musica per chi non frequenti corsi specialistici). È un interesse comune perché in quella palestra di vita il non essere separati per censo è un interesse dei poveri quanto dei ricchi, mettendo ciascuno nella migliore condizione possibile per scegliere e imboccare quelli che sono, al tempo stesso, una vocazione e un indirizzo di vita produttiva e professionale. Perdere per strada talenti che ne sono esclusi, come lasciare senza concorrenza chi ha meno numeri e predisposizione a questo o quello studio è non solo uno spreco intollerabile, ma anche una condanna dei ‘privilegiati’ a seguire più gli indirizzi familiari che le proprie più profonde e originali aspirazioni.
Per realizzare un sistema scolastico ed educativo – che non si sostituisce affatto alla famiglia, ma svolge la funzione che la famiglia non è in grado di svolgere e, anche, libera i genitori per il tempo necessario alla loro vita produttiva – occorre pensare in grande e avere risorse imponenti. Quei 19 miliardi potrebbero esserne un pezzo.
Si sceglie, invece, continuamente di trasferire soldi alle persone, anziché finanziarci servizi. Con il risultato che i ragazzi che si trovassero ad avere genitori sventurati con ogni probabilità neanche li vedrebbero utilizzati per sé, mentre l’automatica assegnazione ai percettori di reddito di cittadinanza, senza che neanche si scomodino a chiederlo, finisce con l’aumentare quella posta e, con quella, la tentazione di aggirare limiti e controlli. Il che porta a commettere sempre lo stesso errore e a non imparare mai da quelli commessi. Il tutto per la gioia di dire: vi abbiamo aiutati. Che se serve non basta e se non serve è uno spreco.
di Davide Giacalone
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