Rivendica la libertà di indossare solo abiti femminili e non ne vuole sapere di essere chiamata “direttrice”. Ce n’è abbastanza per capire perché Beatrice Venezi si sia attirata l’antipatia di più di qualche donna. Il suo mestiere è quello del maestro d’orchestra e di declinazioni politicamente corrette al momento tanto in voga si disinteressa.
Per questo anche Laura Boldrini l’aveva tacciata di avere «scarsa autostima». Da allora non ha fatto mezzo passo indietro e continua a preferire la gonna ai pantaloni, nonostante le critiche e chi la vorrebbe un po’ più femminista.
Eppure quella battaglia che tante donne hanno fatto propria e che è sacrosanta, quella per uguali opportunità e uguale remunerazione, non dovrebbe forse soffermarsi così tanto sulle parole. O sull’abito. Perché quello a cui quelle rivendicazioni puntano è anche la libertà di poter essere esattamente per come ci si sente, senza dover rientrare in quello o in quell’altro cliché. Altrimenti siamo punto e a capo.
Ci ritroviamo ingessate in convenzioni che possono sembrare magari più ‘paritarie’ ma sempre etichette sono. E invece una donna di 31 anni, che fa un lavoro difficile, che ha faticato per arrivare laddove è, ha il diritto innanzitutto di farsi chiamare come meglio ritiene. Senza che le donne, per prime, le puntino il dito contro. Lasciamo stare poi il dibattito su gonna o pantalone, che proprio non dovrebbe esistere. Ciascuno si veste come ritiene, nei limiti della decenza, e doverlo stare a ribadire è tutt’altro che un passo avanti.
di Annalisa Grandi
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