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Crisi non fu

La fiducia al governo Draghi non è mai stata in discussione e il voto di ieri in Senato è una non notizia: la vera partita è accompagnare l’opinione pubblica nel nuovo mondo determinato dalle scelte criminali di Putin.

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Crisi non fu

La fiducia al governo Draghi non è mai stata in discussione e il voto di ieri in Senato è una non notizia: la vera partita è accompagnare l’opinione pubblica nel nuovo mondo determinato dalle scelte criminali di Putin.

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Crisi non fu

La fiducia al governo Draghi non è mai stata in discussione e il voto di ieri in Senato è una non notizia: la vera partita è accompagnare l’opinione pubblica nel nuovo mondo determinato dalle scelte criminali di Putin.

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La fiducia al governo Draghi non è mai stata in discussione e il voto di ieri in Senato è una non notizia: la vera partita è accompagnare l’opinione pubblica nel nuovo mondo determinato dalle scelte criminali di Putin.

La fiducia al governo Draghi non è mai stata in discussione e quindi il voto di ieri in Senato è una non notizia, paradossalmente ancor di più dopo la fumantina alzata di scudi di Giuseppe Conte. Una manovra fine a sé stessa e spazzata via dal presidente del Consiglio Mario Draghi con una semplice contromossa: recarsi al Quirinale lunedì sera. È risultato più che sufficiente mettersi in macchina, a prescindere – avrebbe detto Totò –da ciò che si siano detti il capo dello Stato e il presidente del Consiglio. Al punto che la stessa scelta della Fiducia è apparsa persino superflua. La partita comincia oggi, dopo un voto che conferma una linea politica. La vera sfida, infatti, non è certo trovare soluzioni parlamentari ma la chiave per accompagnare la pubblica opinione nel nuovo mondo, determinato dalle scelte criminali di Putin. Non è possibile rassegnarsi al dibattito degli ultimi giorni, così immaturo e sconfortante. I cittadini vanno trattati da adulti consapevoli, bisogna spiegar loro perché la Difesa non può essere un tema divisivo fra militaristi e pacifisti, in una ridicola e ossessiva ricerca delle semplificazioni più banali. Ferme restando tutte le più che legittime contrarietà di chi non vede nella deterrenza militare parte della politica estera italiana e della stessa Unione europea, se si sostiene questa tesi bisognerebbe avere il coraggio, la decenza politica e la coerenza di accettare le conseguenze del caso. Nello specifico, limpossibilità di partecipare alle responsabilità di governo di un Paese che ha fissato la propria linea politica attraverso le prese di posizione del capo del governo e non uno ma due voti in Parlamento.

Per essere pratici, se si sostiene che lItalia dovrà raggiungere il 2% del prodotto interno lordo nella spesa militare entro il 2028 – come emerso ieri dalla mediazione frettolosamente imbandita dal Partito democratico per non perdere lalleato grillino – bisogna essere altrettanto rapidi nel sottolineare come quella data, il 2028, non può essere un rinvio sine die mascherato. Un modo per placare le ansie pentastellate e al contempo salvare la faccia con gli alleati. Questa è esattamente la politica del rimpiattino che deprime irrimediabilmente il nostro dibattito interno.

Nessuno pensa che lItalia possa aggiungere 13 miliardi di euro di spesa militare domani, ma è altrettanto irrealistico cercare una soluzione così smaccatamente dilatoria. Per essere ancora più espliciti, non veniamo proprio da un periodo cristallino se per un istante proviamo a oggettivizzare, a guardare alle scelte politiche italiane dell’ultimo lustro. Se foste a Londra, Berlino, Parigi o Washington, nel leggere delle sparate di Conte non sareste indotti a ricordare le gite in macchina sotto la Tour Eiffel per sostenere i gilet gialli o le lodi sperticate e scombussolate a qualsiasi autocrate si presentasse su piazza? Pensiamo sul serio che tutto questo non abbia un costo, non ci imponga un surplus di lavoro per definire la nostra credibilità internazionale?

Come al solito, invece, in Italia si sceglie la strada taumaturgica. Ci si affida all’uomo del momento, che nell’era social è quanto mai fugace e più o meno dura sei mesi. A turno. Solo che Mario Draghi non può rientrare in questa galleria di leader saliti fulmineamente all’Olimpo della popolarità e ridiscesi con altrettanta velocità. Non perché non abbia un profilo Twitter, ma perché a dirla tutta fa un altro mestiere. Neanche lui, però, può garantire alcunché in splendida solitudine.

Un conto è indurre rapidamente a miti consigli Giuseppe Conte, un altro è presentarsi sui palcoscenici internazionali posizionando lItalia lì dove deve essere – con ruoli e responsabilità sconosciuti negli ultimi anni – e poi trovarsi con il circo Barnum a casa.

Di una cosa siamo moderatamente certi: il primo a non avallare qualcosa del genere sarebbe proprio lui, lasciando in solitudine (drammatica, in questo caso) primattori e controfigure.

  di Fulvio Giuliani

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