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Dignità è lavoro

Aumentare la spesa assistenziale vuol dire aumentare la povertà. Il migliore investimento rimane l’istruzione.
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Dignità è lavoro

Aumentare la spesa assistenziale vuol dire aumentare la povertà. Il migliore investimento rimane l’istruzione.
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Dignità è lavoro

Aumentare la spesa assistenziale vuol dire aumentare la povertà. Il migliore investimento rimane l’istruzione.
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Aumentare la spesa assistenziale vuol dire aumentare la povertà. Il migliore investimento rimane l’istruzione.
Spendiamo molti soldi per riuscire a produrre poveri e povertà. Nel 2008 i contribuenti finanziavano l’assistenza per 73 miliardi di euro, nel 2019 erano divenuti 114,7. Senza contare Quota 100 (dati elaborati da Alberto Brambilla). Nello stesso lasso di tempo la povertà, ignara di tanto sforzo, cresceva ancora di più: spesa +56%; famiglie in povertà assoluta +78%; in povertà relativa +25%; persone in povertà assoluta +117%; in povertà relativa +36%. Per forza, concludono i demagoghi un tanto al chilo: c’è la crisi, i licenziamenti, la disoccupazione. No, l’opposto, perché il 2019 aveva segnato un record di occupazione e salari. Il Covid viene dopo e, quindi, c’entra nulla. Visto che più si spende in assistenza e più crescono i poveri si dovrebbe essere presi dal dubbio che sia la spesa a farli dilagare, anziché drenarli. Aumentando quella spesa, difatti, si accresce il tesoro in distribuzione e, con quello, la brama di accaparrarsene una parte e, quindi, di rientrare nei parametri di chi ne ha diritto. A questo si aggiunga che, per quanto sia folle, non c’è una banca dati unica dell’assistenza, sicché gli affluenti della spesa assistenziale sono diversi, con pagatori che sono sia locali che nazionali, talora indirizzati alle stesse persone che ingrossano il fiume della povertà assistita. Che, a sua volta, in queste condizioni, è in parte simulata – così facendo crescere la propensione alle prestazioni in nero, con un doppio pernacchio ai contribuenti, fra i quali si bada di non rientrare – mentre in altra parte è favorita proprio da quei soldi, perché se effettiva – e con cause che vanno dalla tossicodipendenza alla ludopatia – più consegni soldi, più aumentano le dipendenze, più si produce povertà. Un simile congegno va bloccato, non ingrassato con più quattrini. Il migliore investimento contro la povertà restano l’istruzione, la selezione meritocratica e lo sblocco degli ascensori sociali mediante più competizione e meno rendite di posizione. Il vero povero non aspira a restare tale, mentre il figlio del vero povero è abominevole che sia destinato a replicare la sorte dei genitori. L’assistenzialismo è disonorevole e controproducente. L’etica dell’impegno, dello studio e del lavoro è la via d’uscita. La dignità non si agguanta regalando soldi per i consumi, ma aprendo opportunità di competenza e produzione. La ricchezza che si consuma, anche quella che si redistribuisce, va prima creata. Contribuire a farlo accresce l’autostima, singola e collettiva, nonché l’attenzione a come i denari sudati e poi prelevati vengono spesi. Assistenzialismo ed evasione fiscale convivono amabilmente perché condividono la consumazione della ricchezza altrui. E mentre crescono sia la spesa per assistenza che la povertà, restano centinaia di migliaia (400mila secondo Unioncamere e lo stesso livello è confermato dalle agenzie private del lavoro) di posti di lavoro scoperti, per mancanza di competenze, voglia e, anche qui, di una banca dati nazionale. Roba da dare la testa contro il muro. Quella che Luca Ricolfi ha chiamato “società signorile di massa”, dove si consuma e non si produce altrettanto, in questo modo porterà alla società immiserita (non solo economicamente) di massa. Con l’aggravante che l’arretramento concima istinti, idee e umori fra i peggiori. Tutto questo sarebbe impossibile se una collettività – che crede che il tempo migliore sia il passato, con ricchezze ereditate da spartirsi, anziché il futuro, con mercati e ricchezze da conquistare – non avesse selezionato una classe dirigente (mica solo politici, pur primatisti) di retori ignoranti e furbeschi ingannatori. Quella su cui s’è corso è la pista del disonore. Individuale e collettivo. Ma accanto a questa c’è l’Italia della competizione e del successo. Giustizia ed equità consistono nell’aprirla a tutti, ciascuno secondo le proprie capacità, non nello strangolarla per finanziare un meccanismo orrido che genera la povertà che annuncia di volere combattere. di Davide Giacalone

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