Aveva un solo sistema, Nole Djokovic, per riconciliarsi col creato e ritrovare l’equilibrio. Arrivare in testa all’ultima curva della finale più importante, la partita della vita, e fare testacoda, cioè perderla. Il Cannibale, RoboNole, quello che sgrana gli occhi e ribatte meccanicamente qualsiasi tipo di oggetto sferico gli passi nelle vicinanze. Piazzandolo nel centimetro quadrato di campo avversario che preferisce. Quello che ha tramutato la sua esistenza in un perpetuo ritiro monastico, l’asceta che vive per vincere, il vegano, il no-vax, l’abbracciatore di alberi.
Ebbene, contro ogni previsione verosimile, proprio lui ha conosciuto la peggiore sconfitta della sua vita. Il più detestato, in quanto più forte. Quello che ‘gli fanno il tifo contro’, un po’ per i suoi atteggiamenti tracotanti, un po’ perché la gente tende a stare con l’underdog, lo sfavorito, lo sfigato di turno. E lui non lo è mai stato.
La finale di New York poteva consegnargli l’eternità, il record di Slam in bacheca e – udite udite – il Grande Slam, roba che nel tennis non si vede dai tempi di Rod Laver, anno 1969 d.C. Insomma, l’attestazione di storicità. Ma proprio sul più bello, puff. Il sogno gli è esploso in mano, per via della gigantesca pressione che neanche lui, unanimemente riconosciuto come alieno alle emozioni, è riuscito a sostenere. Beninteso, Medvedev – il suo dinoccolato avversario – ha giocato una partita suprema, usando al meglio le armi che possiede, servizio e sciabolate da fondocampo.
Vivendo, quando si è trattato di chiuderla sul 5-2 in suo favore nel terzo, anch’egli il suo bravo psicodramma, fatto di tre doppi falli in un solo game. Solo che poi si è riavuto, e l’ha portata a casa con merito indiscutibile. Per lui primo Major in carriera, certo non l’ultimo. Ma la partita l’ha comunque persa Nole, inopinato e svuotato, stavolta incapace di rianimarsi e alzare il livello, come aveva fatto ogniqualvolta si era trovato sotto in precedenza. Leggi semifinale contro Zverev e quarti contro Berrettini.
Pallido, visibilmente meno brillante, preoccupato, a tratti sghembo. Pareva stesse male, e probabilmente stava
male. Gli psicoanalisti spiegano che l’uomo, nel subconscio, è terrorizzato dall’idea di essere diverso dal resto dei suoi simili. Avesse vinto, Nole sarebbe diventato proprio questo: superiore, imprendibile, inumano. Non ce l’ha fatta, sull’Arthur Ashe si è consumato il dramma davanti a ventiquattromila persone che – stavolta – facevano il tifo per lui.
Ha perso lo stesso, ma per una volta si è sentito amato da tutti.
Di Stefano Meloccaro
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