Mentre Mosca bombarda e dice di non farlo, i colloqui per la pace vanno avanti e non mancano gli ottimismi. Ma restando ancorati alla realtà, mancano ancora passi importanti Il primo? Un vero cessate il fuoco.
Piovono bombe e chiacchiere. Che qualcosa non tornasse negli annunci di disponibilità al dialogo che arrivavano da Mosca non serviva un genio a capirlo. Ieri, a quelli che non vogliono vedere, ha pensato Mosca a spalancare gli occhi: nessuna svolta dai colloqui, dicono i russi. Colpa loro, aggiungiamo noi. Quel che non torna attiene alla sostanza e non alla forma delle cose, visto che la Russia prosegue nel bersagliare e nel bombardare le città ucraine.
Tutto questo continua ad accadere mentre dalla Turchia il tentativo di pace tra Kiev e Mosca messo su dal presidente Recep Tayyip Erdoğan (che è anche il leader di un Paese membro della Nato) va avanti e non mancano gli ottimismi sparsi in giro. Poco avvezzi ai desideri, soprattutto quando si tratta di guerra, restiamo ancorati alla realtà, che ci lascia piuttosto scettici. Innanzitutto manca, per arrivare a un buon esito delle trattative, un cessate il fuoco. Nella storia della diplomazia e dei negoziati per fermare una guerra e arrivare a un accordo di pace tra le parti (o a una tregua) che faccia tacere le armi, una precondizione è smettere di sparare e tirar bombe. Le armi russe, invece, continuano a far fuoco anche se nel linguaggio di Mosca (che non è quello di una democrazia) parlano di una riduzione dell’attività militare, in particolare su Kiev. Tra gli argomenti cari agli ottimisti sulla pace c’è pure questo. Un argomento che – visto con la necessaria razionalità delle circostanze e tenendo presente che su Kiev le bombe non si sono fermate – di per sé non vuol dir molto, dato che potrebbe implicare varie cose, compreso un cambio dei piani di guerra dei russi.
Questo continuare a sparare è anche la ragione che ha fatto dire sulle trattative in Turchia al segretario di Stato americano Antony Blinken di non aver visto segni di «reale serietà» da parte della Russia nei colloqui con l’Ucraina, dato che «un conto è quello che dice la Russia e un conto quello che fa» e per fermare la guerra conta il fare e non il parlare. Un altro aspetto che lascia scettici su un esito positivo dei negoziati per la pace – finché non interverranno da parte di Putin nuovi segnali di disponibilità a negoziare – attiene alle rivendicazioni territoriali russe in Ucraina. A cosa è disposto a rinunciare il Cremlino per fermare la guerra? Alla Crimea? Al Donbass? Francamente il far sapere che la ‘denazificazione’ dell’Ucraina non sarà più dirimente per Mosca fa sorridere. Di amarezza, trattandosi di un non problema, a meno di non confondere il Paese di Zelensky con la Monaco hitleriana degli anni Trenta. Roba da propaganda putiniana.
Assieme alla collocazione dell’Ucraina e alla volontà russa di disarmarla tenendola fuori dalla Nato, la questione territoriale resta il vero nodo da sciogliere per arrivare a un accordo. Mantenendo il punto fermo di un’Ucraina fuori dalla Nato, Mosca ha dato segni di apertura solamente rispetto all’ingresso di Kiev nell’Unione europea. È questo oggi l’unico segnale russo, che però vale nulla finché continuano i bombardamenti. Perciò, mentre le speranze su una pace possibile si fanno largo in gran parte dell’opinione pubblica occidentale, è necessario esser schietti: quando si negozia seriamente si cessa il fuoco! Il resto è contorno.
di Massimiliano Lenzi
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