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I pezzi si muovono dalla Lituania alle Isole Salomone

Dal Baltico al Pacifico, la scelta di riconoscere Taiwan crea venti di guerra e addirittura sommosse. Anche gli Stati Uniti sono recentemente dovuti intervenire a sostegno della Lituania, offrendo un accordo di credito all’esportazione di 600 milioni di dollari.
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I pezzi si muovono dalla Lituania alle Isole Salomone

Dal Baltico al Pacifico, la scelta di riconoscere Taiwan crea venti di guerra e addirittura sommosse. Anche gli Stati Uniti sono recentemente dovuti intervenire a sostegno della Lituania, offrendo un accordo di credito all’esportazione di 600 milioni di dollari.
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I pezzi si muovono dalla Lituania alle Isole Salomone

Dal Baltico al Pacifico, la scelta di riconoscere Taiwan crea venti di guerra e addirittura sommosse. Anche gli Stati Uniti sono recentemente dovuti intervenire a sostegno della Lituania, offrendo un accordo di credito all’esportazione di 600 milioni di dollari.
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Dal Baltico al Pacifico, la scelta di riconoscere Taiwan crea venti di guerra e addirittura sommosse. Anche gli Stati Uniti sono recentemente dovuti intervenire a sostegno della Lituania, offrendo un accordo di credito all’esportazione di 600 milioni di dollari.
Dal Baltico al Pacifico, la scelta di riconoscere Taiwan crea venti di guerra e addirittura sommosse. Gli Stati Uniti sono recentemente dovuti intervenire a sostegno della Lituania, offrendo un accordo di credito all’esportazione di 600 milioni di dollari dopo che Pechino aveva declassato le relazioni diplomatiche con Vilnius – da ambasciatore a incaricato d’affari – in rappresaglia per l’apertura nello Stato baltico di un Ufficio di rappresentanza di Taipei.

La Cina ha anche interrotto il flusso dei treni merci per la Lituania e ha smesso di rilasciare permessi di esportazione di cibo.

Nel frattempo la crisi fra Stati Uniti e Cina sull’isola di Taiwan si è acuita dopo che era stata fatta trapelare la presenza di forze speciali Usa nell’isola per addestrarne i militari, in risposta all’aeronautica cinese che ne aveva violato lo spazio aereo in modo sempre più ossessivo. Ed è stata seguita dall’annuncio da parte del Dipartimento di Stato di un Summit for Democracy, sia pure virtuale, in cui tra i 110 Paesi invitati compare appunto Taiwan e non la Cina.

Ma se quella di Washington è stata una reazione di vertice, nelle Isole Salomone si è invece verificata una sorprendente reazione popolare.

Nella capitale Honiara è stato imposto il coprifuoco dopo che una folla di manifestanti aveva tentato di fare irruzione in Parlamento dando fuoco a una stazione di polizia e ad alcuni edifici, mentre venivano lanciati lacrimogeni. Il primo ministro australiano Scott Morrison ha dovuto annunciare l’invio di truppe per aiutare a rimettere pace. A far da detonatore della sommossa è stata la decisione del primo ministro Manasseh Sogavare di passare dal riconoscimento di Taipei al suo disconoscimento. Un adeguarsi al volere di Pechino che risale invero al settembre 2019 ma che da allora è andato via via montando, trasformandosi in una questione politica incandescente.

A giocare un ruolo importante sono le storiche tensioni fra le due province più importanti delle Isole Salomone: Guadalcanal, sede della capitale, e Malaita, la più popolosa.

Proprio a causa di questo sovraffollamento esiste una storica emigrazione da quest’ultima verso Guadalcanal. I locali la mal sopportano e già tra 1998 e il 2003 era scoppiata una sorta di guerra civile che aveva costretto l’Australia a un primo intervento. Adesso nuovi scontri violenti sono nati dopo che il primo ministro di Malaita, Daniel Suidani, ha accusato il governo nazionale di aver preso tangenti da Pechino. Gran parte dei partecipanti alla protesta venivano da Malaita e il sistematico saccheggio dei negozi nella Chinatown di Honiara dimostra come di mezzo vi siano antipatie anche xenofobe, peraltro alimentate da quelle che vengono percepite come prepotenze di Pechino. Già dopo le elezioni del 2006 il quartiere cinese era stato teatro di violenze, nate in seguito a voci secondo le quali aziende vicine a Pechino avevano truccato il voto popolare.   Di Maurizio Stefanini

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