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José Mourinho, la prima sconfitta non guasta la luna di miele

Il ritratto di un allenatore che si conferma uno dei pochi personaggi capace di affascinare anche chi è disinteressato al pallone.
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José Mourinho, la prima sconfitta non guasta la luna di miele

Il ritratto di un allenatore che si conferma uno dei pochi personaggi capace di affascinare anche chi è disinteressato al pallone.
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José Mourinho, la prima sconfitta non guasta la luna di miele

Il ritratto di un allenatore che si conferma uno dei pochi personaggi capace di affascinare anche chi è disinteressato al pallone.
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Il ritratto di un allenatore che si conferma uno dei pochi personaggi capace di affascinare anche chi è disinteressato al pallone.
Don José è tornato. Non lo Special One, che probabilmente non vedremo mai più, ma la versione di Mourinho più affascinante e interessante. Per i romanisti in costante estasi ormai da un mese e mezzo, ma anche per tutti gli appassionati di calcio. In particolare, di chi non si accontenti di uno sguardo superficiale allo sport dalle più profonde influenze sociali della nostra epoca. Come si diceva, il Mourinho di questo inizio di avventura capitolina non è più lo Special One, l’idea da copertina di sé inventata dall’allenatore portoghese a uso dei media. L’arma psicologica perfetta, da usare contro gli allenatori avversari e le squadre da affrontare, specialmente se più forti.

Il Mourinho approdato nella capitale, reduce dalla fallimentare esperienza al Tottenham, non poteva più giocarsi questa carta, credibile in epoca di trionfi.

L’abilità dell’uomo, molto prima che del ‘mister’, è stata quella di comprendere l’esigenza di restare fedele a sé stesso, cambiando approccio. Scottato dai mesi londinesi, in cui gli Hotspur sono risultati sempre lontani dagli acerrimi rivali del Chelsea (per tacere del City dell’alter ego Pep Guardiola), Mourinho ha riscoperto la sua versione dei tempi del Porto. Quando seppe far rendere una squadra normale a livelli inimmaginabili, ponendo il primo mattone alla costruzione del mito. È evidente come alla Roma il fu Special One stia lavorando in modo ossessivo sulla testa di ragazzi ancora ben lontani dallo status di ‘stelle’, come è apparso evidente anche domenica a Verona. Ottime promesse, buoni giocatori, discreti talenti che Mourinho sta convincendo giorno dopo giorno di essere dei potenziali campioni. Non conta che sia vero, è fondamentale che ci credano, trasferendo in campo ondate emotive che possono fare la differenza. Come al Porto, appunto. Non stiamo dicendo che la Roma vincerà lo scudetto o che sia favorita nella neonata Conference League, la terza coppa europea.

Di sicuro, grazie a Don José, i giocatori danno la sensazione di crederci, come una piazza in piena depressione solo quattro mesi fa.

Del resto, lo ricordano molto bene i tifosi dell’Inter, Mourinho fa così: allena anche i media e soprattutto l’ambiente. Che è qualcosa di più e meglio dei tifosi, è l’humus in cui possono essere coltivati i semi giusti per provare a vincere. Riuscirci, poi, resta dipendente da una molteplicità di fattori incontrollabili per chiunque. Persino per un uomo dall’ego pronunciato come lui. L’allenatore portoghese si conferma uno dei pochi personaggi del mondo del calcio capace di affascinare anche chi è sommamente disinteressato al pallone. Per le sue capacità dialettiche, senza ombra di dubbio, ma anche per i messaggi che ha sempre provato a trasferire alle squadre. Su tutti, la relatività del concetto di ‘impossibile’. Le sue imprese più grandi sono legate a storie di gruppi psicologicamente fenomenali, cementati intorno a obiettivi considerati fuori portata dagli altri, da quei ‘nemici’ abilmente individuati da Mourinho come carburante ideale delle proprie macchine da calcio. Il Porto campione d’Europa e la stessa Inter del Triplete: squadre molto forti, ma non dominanti sulla carta. Convinte di poter aspirare all’immortalità calcistica, una dimensione che può intravedere solo un uomo dotato di una visione fuori dal comune. Un uomo per cui Roma non è una città affascinante e condannata alla periferia della gloria dalle sue stesse esagerazioni, ma l’ambiente ideale per l’ultima versione di sé.   Di Diego de la Vega

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