L’arroganza russa nemica delle sue flotte
Dopo 117 anni il trauma di Tsushima è ancora una sindrome per Mosca.
L’arroganza russa nemica delle sue flotte
Dopo 117 anni il trauma di Tsushima è ancora una sindrome per Mosca.
L’arroganza russa nemica delle sue flotte
Dopo 117 anni il trauma di Tsushima è ancora una sindrome per Mosca.
Dopo 117 anni il trauma di Tsushima è ancora una sindrome per Mosca.
27 maggio 1905, acque vicino all’isola di Tsushima, nello stretto di Corea: dopo un viaggio lungo 33mila chilometri e durato circa un anno, la flotta imperiale russa guidata dall’ammiraglio Zinovy Rozhestvensky è pronta finalmente ad affrontare la flotta combinata giapponese comandata dall’ammiraglio Tōgō Heihachirō. L’intento della spedizione navale di Mosca è quello di vendicare la recente sconfitta a Shantung, rompere quindi il blocco navale che l’impero del Giappone ha imposto alla base di Port Arthur (l’odierna Lüshun) e così riaffermare nel Pacifico la supremazia della marina dello zar.
Partite per spazzare via le ambizioni talassocratiche di un Paese non ancora considerato alla pari delle potenze occidentali, le navi russe vengono al contrario affondate in quantità dal tiro preciso dei cannoni di Tōgō, che distruggono persino l’ammiraglia “Knyaz Suvorov” e feriscono gravemente Rozhestvensky. Per i suoi effetti sulla proiezione della potenza imperiale russa, la battaglia di Tsushima è indicata dagli storici come uno dei momenti prodromici alla caduta del regime zarista e sicuramente una delle più grandi disfatte navali di tutti i tempi.
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Dopo 117 anni è allora normale che l’affondamento dell’incrociatore “Moskva”, ammiraglia della flotta russa del Mar Nero, da parte di un popolo che giudicano “inferiore” come quello ucraino, abbia scatenato uno psicodramma. Ironicamente, in questi stessi giorni i siloviki si stanno affannando a creare false flag – già sfatate da intercettazioni telefoniche – nelle città russe al confine ucraino per cercare di creare le condizioni per la dichiarazione di guerra vera e propria che permetterebbe la leva generale e soprattutto l’impossibilità per i militari di carriera di licenziarsi, come stanno facendo in massa. Al posto di ordire menzogne, sarebbe forse sufficiente ammettere invece la verità, cioè che l’affondamento del “Moskva” sia avvenuto per un attacco nemico, per scatenare nei russi una voglia di riscatto tale da sostenere una simile misura.
Il criminale Putin ha però paura di ammettere questa sconfitta e il suo scagnozzo Peskov ha già fatto sapere che non si terrà nessuna conferenza stampa sull’incidente né alcuna visita alla base navale di Sebastopoli: questo disastro navale così come l’ammissione del numero catastrofico dei caduti (che secondo Kyiv ammontano ormai a più di 20mila) farebbero apparire deboli le forze armate russe. La perdita della copertura antiaerea fornita dalla “Moskva” è infatti un colpo durissimo per la strategia di isolamento della costa ucraina e ha de facto aperto alla navigazione la parte Ovest del Mar Nero. Odessa – ormai totalmente salva da un qualsivoglia attacco – può ora teoricamente esportare tramite il suo porto le granaglie del Paese dei Girasoli fin qui bloccate sulla terraferma.
Le navi russe possono certo ancora minacciare le rotte commerciali, ma solo esponendosi al rischio concreto di venire affondate dai droni o da un altro di quei missili Neptune che nel 2019 erano giudicati dagli analisti moscoviti non abbastanza potenti da rappresentare una minaccia per i loro navigli. Una sottovalutazione che si evidenzia come ennesima prova dell’arroganza del regime autocratico del Cremlino, colpevole nel condurre la Russia alla rievocazione forzata di uno dei più grandi disastri bellici della sua storia.
Di Camillo Bosco
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