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L’assoluzione faticosa e l’aggravante discutibile

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L’assoluzione faticosa e l’aggravante discutibile

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L’assoluzione faticosa e l’aggravante discutibile

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È stato assolto perché «il fatto non costituisce reato» Alex Pompa, il 19enne che il 30 aprile 2020 uccise con 34 coltellate il padre Giuseppe. La sua storia, la storia di questo ragazzo per cui il pubblico ministero aveva chiesto una condanna a 14 anni di carcere, aveva da subito smosso l’opinione pubblica: un figlio che uccide il padre violento che quotidianamente minacciava di morte la madre. «Mi avrebbe ammazzata, se non fosse stato per Alex non sarei qui» aveva ripetuto la donna. Perfino il pm aveva ammesso di essere in qualche modo costretto – ovviamente dalla legge – a chiedere quel tipo di condanna, perché l’aggravante dell’omicidio di una persona con vincolo di parentela risultava prevalente sulle attenuanti, di cui era stata considerata valida solo la semi infermità mentale del ragazzo accertata da una perizia psichiatrica. Era stato lo stesso pubblico ministero però a chiedere ai giudici di «valutare se la norma è ragionevole» e invitarli a rivolgersi alla Corte costituzionale. Non ce n’è stato bisogno perché la Corte d’Assise di Torino lo ha assolto: leggeremo poi le motivazioni della sentenza ma presumibilmente è stata accolta l’ipotesi della legittima difesa, anche se quella sera in particolare non c’erano state aggressioni fisiche da parte del padre, anche se Alex non agì in preda a un raptus ma certamente per uccidere, perché sferrò numerosi colpi utilizzando sei coltelli diversi.

In aula però erano entrate anche le registrazioni, oltre 250 file audio, che raccontavano le quotidiane minacce e gli insulti di Giuseppe alla moglie.

Anni di soprusi fisici e psicologici che avevano segnato profondamente Alex che, secondo la perizia, a causa di quel quotidiano inferno domestico soffriva di un disturbo post traumatico da stress. Una vicenda che non aveva lasciato indifferente neanche Paolo Fassa Bortolo, l’80enne imprenditore del settore del calcestruzzo che aveva deciso di pagare l’assistenza legale al ragazzo. In tutto questo, e al di là della vicenda drammatica e personale di questa famiglia, resta il tema normativo. L’aggravante introdotta per l’uccisione di congiunti avrebbe in questo caso potuto tranquillamente portare a una condanna, in punta di diritto.

La Corte ha fatto una scelta coraggiosa e ampiamente condivisibile perché nessuno, nemmeno il pubblico ministero, voleva davvero che Alex finisse in carcere.

Ma la sentenza non è inattaccabile e la speranza è che la Procura non decida di ricorrere in appello perché altrimenti il verdetto potrebbe cambiare. È vero invece quello che ha detto sua madre, che questo ragazzo la sua condanna l’ha già scontata: crescere con un padre violento.   Di Annalisa Grandi

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