L’insidiosità dell’assuefazione
Dopo due anni di pandemia il rischio di assuefarsi alla tragedia della guerra è alto, ma questo conflitto è troppo vicino e non possiamo permetterci di smettere di parlarne.
L’insidiosità dell’assuefazione
Dopo due anni di pandemia il rischio di assuefarsi alla tragedia della guerra è alto, ma questo conflitto è troppo vicino e non possiamo permetterci di smettere di parlarne.
L’insidiosità dell’assuefazione
Dopo due anni di pandemia il rischio di assuefarsi alla tragedia della guerra è alto, ma questo conflitto è troppo vicino e non possiamo permetterci di smettere di parlarne.
Dopo due anni di pandemia il rischio di assuefarsi alla tragedia della guerra è alto, ma questo conflitto è troppo vicino e non possiamo permetterci di smettere di parlarne.
Speravamo fosse già finita, anzi che non iniziasse mai. Invece è trascorso un mese dall’inizio della guerra in Ucraina e ancora non si vedono spiragli reali per la risoluzione di un conflitto che ci ha fatto d’un tratto ripiombare in quelli che sembravano brutti ricordi del passato. I bombardamenti, le immagini dei palazzi distrutti, i civili in fuga e quelli uccisi: tutto questo è diventato parte di un racconto quotidiano difficile da accettare. Veniamo da due anni di pandemia, due anni di un virus che ha sconvolto le nostre vite e proprio mentre speravamo finalmente di vedere la luce è arrivato questo conflitto.
Il rischio di assuefarsi alla tragedia, di smettere piano piano di sconvolgerci è reale e da alcuni punti di vista comprensibile. È difficile restare sempre immersi nelle tragedie, nei drammi. È umano fare fatica a mantenere fermo lo sguardo. Ma questo conflitto è troppo vicino e mette a rischio il nostro Occidente. Non possiamo permetterci di stancarci. Di smettere di parlare. E questo lo dobbiamo ovviamente a quelli che mentre noi discutiamo vivono sottoterra nei bunker. Senza più una casa, senza più un posto sicuro per i propri figli. Persone che chiedono che le loro storie vengano raccontate. Lo dobbiamo ancora di più a chi è stato ucciso, a quei 128 bambini che non diventeranno mai adulti. Sta succedendo quello che è accaduto con il Covid: dopo esserci tutti compattati ora iniziano a fiorire le più svariate teorie complottiste.
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Nei primi giorni la condanna di Putin era unanime, ora sempre più spesso ci si ritrova a fare i conti con chi cerca una ragione in ciò che un senso non ce l’ha, se non quello di un dittatore pronto a tutto per affermare il proprio dominio. Per fortuna, si tratta di una minoranza e il modo in cui il nostro Paese sta accogliendo chi scappa da questa guerra lo dimostra. Lo stanno facendo anche altre nazioni. In particolare la Moldavia, uno dei Paesi più poveri del nostro continente ma che nonostante questo ha già aperto le sue porte a oltre 100mila profughi ucraini. Così come i polacchi, a cui era destinata l’orrenda trasmissione andata in onda sulla tv russa in cui, mentre si parlava delle bombe atomiche come di giocattoli, veniva spiegato che «in trenta secondi non resterebbe più niente di Varsavia».
Una strategia del terrore e della propaganda, quella di Mosca, che deve continuare a trovare risposta nei tentativi diplomatici ma anche nel buonsenso di chi in Italia ha il compito e il dovere di fare informazione. Senza aizzare chi già sta vedendo la propria nazione rasa al suolo, giorno dopo giorno. Senza cedere alla volontà di fare spettacolo con gli scontri verbali o speculando su drammi come quello del teatro di Mariupol. Come se la cosa importante sia dibattere di questo o quell’episodio. Ricordiamoci che ucraini sono migliaia di uomini e donne che lavorano nel nostro Paese, persone che fino a un mese fa vivevano in una nazione come la nostra e che oggi si trovano a pregare di poter riabbracciare qualcuno dei loro cari o a piangere per amici e parenti uccisi in patria.
di Annalisa Grandi
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