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Non fermarsi

Il presidente del consiglio Mario Draghi, durante un’intervista al di fuori delle conferenze stampa, ha sottolineato le responsabilità del dittatore di Mosca Vladimir Putin nella guerra scatenata contro l’Ucraina.
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Il presidente del consiglio Mario Draghi, durante un’intervista al di fuori delle conferenze stampa, ha sottolineato le responsabilità del dittatore di Mosca Vladimir Putin nella guerra scatenata contro l’Ucraina.
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Il presidente del consiglio Mario Draghi, durante un’intervista al di fuori delle conferenze stampa, ha sottolineato le responsabilità del dittatore di Mosca Vladimir Putin nella guerra scatenata contro l’Ucraina.
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Il presidente del consiglio Mario Draghi, durante un’intervista al di fuori delle conferenze stampa, ha sottolineato le responsabilità del dittatore di Mosca Vladimir Putin nella guerra scatenata contro l’Ucraina.
Ha aspettato oltre 14 mesi, prima di concedere un’intervista da presidente del Consiglio. Tutto tranne che casuale il momento in cui Mario Draghi ha deciso di parlare con un giornalista, al di fuori delle conferenze stampa. Nel dialogo con il direttore del “Corriere della Sera” Luciano Fontana, il capo del governo si è mosso su un doppio binario, diretto al medesimo obiettivo. Sul piano della politica estera, quindi della guerra scatenata da Vladimir Putin contro l’Ucraina, ha sottolineato le responsabilità del dittatore di Mosca (sempre “presidente” nel suo linguaggio istituzionale marcatamente diverso rispetto agli sbandamenti che pure in Italia abbiamo avuto, si veda il ministro degli Esteri) come dati di fatto incontrovertibili. Un modo per togliere acqua al mulino del dibattito pacifista unilaterale, che in Italia ha le sue fortune e trova nella composita maggioranza qualche orecchio più che interessato. Si è detto personalmente molto deluso da Putin, ricordando di averlo cercato sino alla vigilia della guerra, nel tentativo di convincerlo a evitare la tragica avventura, ma anche di non credere utile in questo momento – passaggio di grande valore – continuare a parlare con lui, dovendo riconoscere che l’unico interesse dell’uomo del Cremlino in questo passaggio è la guerra. La ricerca ossessiva di una vittoria, una vittoria qualsiasi ormai, da vendere in patria. Parole di crudo realismo, che hanno anche l’effetto – voluto e cercato – di tenere ben ferma l’Italia sul fronte occidentale più intransigente. Finché ci sarà il suo governo, il non detto di Draghi, la politica estera italiana è questa. Ed eccoci, così, sull’altro binario dell’intervista rilasciata al “Corriere”: il futuro politico del governo di unità nazionale. Mario Draghi più chiaro di così non sarebbe potuto essere. Pur smussando il suo pensiero fra elogi per i risultati ottenuti grazie alla collaborazione dei partiti e al loro lavoro in Parlamento e fuori, il capo del governo ha ripetuto di aver intenzione di andare avanti solo se potrà fare il suo lavoro, quindi accelerando sull’attuazione del Pnrr, sulle riforme – comprese quelle più indigeste a parti della maggioranza – e ricordando soprattutto che il Paese, dopo gli straordinari risultati del 2021, non è in recessione e non lo sarà. Nonostante la guerra. Un modo per smentire seccamente la propaganda di taluni leader, che ha ricominciato a battere sui vecchi, cari temi della crisi economica, del disastro delle famiglie, delle bollette fuori controllo, etc. E qui Draghi assume toni quasi ultimativi nei confronti di certa politica, ricordando la battuta del condizionatore e non per rinnegarla. Anzi, il capo del governo ne ha approfittato per quantificare in 1-2 gradi di riscaldamento in meno nel prossimo inverno il limite dei sacrifici richiesti agli italiani, più o meno anche per quest’estate nei suddetti condizionatori. «Al massimo» sottolinea, come a lanciare un guanto di sfida: e ora ditemi che questi sono sacrifici insopportabili davanti alla tragedia di una guerra, il sottinteso (neppure troppo) del suo pensiero. Ribadito di non aver alcuna intenzione di presentarsi al voto e di considerare concluso il suo mandato con le prossime elezioni, Draghi ha tolto qualsiasi arma propagandistica a chi fosse tentato di eleggerlo a bersaglio. È già successo, del resto, nei confusi giorni che precedettero la rielezione di Sergio Mattarella. Il cerino torna così nelle mani dei partiti, che dovranno decidere se lasciarlo lavorare o far cadere il governo intestandosene la responsabilità fino in fondo. Resta, inevasa la domanda con la “D” maiuscola di questi mesi: gli italiani che volessero votare per la stabilità e la continuità di governo, dove dovrebbero apporre la crocetta? Una risposta non c’è ed è esattamente il dramma politico in cui ci eravamo ritrovati nel febbraio dell’anno scorso. Tante cose sono successe da allora ma nulla su questo fronte. Eppure questo non lo si può proprio imputare al capo del governo.   di Fulvio Giuliani

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