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Prime cure

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Il Consiglio dei Ministri ha approvato le norme del Csm all’unanimità. È il primo passo verso un “servizio giustizia” equo e giusto, come merita un Paese democratico. Ma la strada è ancora lunga e accidentata.

Prime cure

Il Consiglio dei Ministri ha approvato le norme del Csm all’unanimità. È il primo passo verso un “servizio giustizia” equo e giusto, come merita un Paese democratico. Ma la strada è ancora lunga e accidentata.
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Prime cure

Il Consiglio dei Ministri ha approvato le norme del Csm all’unanimità. È il primo passo verso un “servizio giustizia” equo e giusto, come merita un Paese democratico. Ma la strada è ancora lunga e accidentata.
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Alla fine, dopo un tira e molla con Forza Italia, il Consiglio dei ministri ha approvato le norme sulle carriere dei magistrati e sulle modalità elettorali del Consiglio superiore della magistratura. Scompaiono le “porte girevoli”: chi assume incarichi governativi poi dovrà appendere la toga al chiodo, giurisdizionalmente parlando. Chi viene candidato da un partito ma trombato dagli elettori, dovrà stare fermo per tre anni prima di riprovarci. L’approvazione all’unanimità è beneaugurante. Il fatto che il governo non metterà la fiducia lasciando aperta – questa sì – la porta a eventuali scorribande d’aula, molto meno. Però bisogna sapersi accontentare: dopo la riforma del codice penale e di quello civile, il terzo obiettivo centrato dalla coppia Draghi-Cartabia segna un primo (ancora timido, bene ripeterlo) passo sulla strada di un “servizio giustizia” all’altezza delle necessità. Strada che, tuttavia, se vogliamo evitare pose consolatorie, risulta ancora lunga e accidentata. Mettiamola giù pesante, va bene? Di riforme ‘epocali’ finora non s’è vista traccia. Da decenni la giustizia è la grande malata dell’Italia. Lo era quando le Procure erano il porto delle nebbie; lo è rimasta quando la politicizzazione e l’atteggiamento salvifico sono diventati il mantra di una fetta di pm e giudici, con i media a fare da grancassa interessata. Nel mezzo si sono susseguiti interventi parziali, settoriali o addirittura personali, bilanciati in modo nefasto da imbracature ideologiche e demagogiche, come il “fine processo mai” grazie all’abolizione della prescrizione tanto cara agli stomaci grillini e poi sostituita dalla Guardasigilli con il criterio dell’improcedibilità. Negli anni, giustizialismo e garantismo sono state clave brandite a turno da questo o quello schieramento con l’onnipotente criterio di salvaguardare gli amici e colpire i nemici. Oppure roteate da leader spesso sedicenti, con l’ago della bussola orientato sull’interesse di parte. Schiacciate dal macigno giustizia che sta lì con nessuno che mostra interesse, capacità e voglia di smuovere sono finite nel tritacarne perfino le garanzie costituzionali. Le sacrosante indipendenza e autonomia della magistratura troppe volte sono diventate l’usbergo dietro al quale promuovere pastette di corrente o usare le indagini per indirizzare il corso degli eventi politici; come pure la presunzione di innocenza, pilastro dello Stato di diritto, è stata bypassata dalle toghe o protesa quale scudo della politica per sottrarsi al controllo di legalità. Non è così che funziona in un Paese democratico. Sapendo che questo è l’ultimo giro. Se la giustizia non viene rimessa in sesto da un presidente del Consiglio autorevole e da un ministro della Giustizia competente – entrambi fuori dai giochi politici – e sostenuta da una maggioranza che mette insieme le principali anime del Paese, la partita è persa. Perciò, per favore: si proceda.   di Carlo Fusi

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