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Russofili

L’ipocrisia e la russofobia puntate contro chi racconta che i russi hanno invaso l’ucraina con il loro esercito e stanno consumando una guerra contro un popolo libero.
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L’ipocrisia e la russofobia puntate contro chi racconta che i russi hanno invaso l’ucraina con il loro esercito e stanno consumando una guerra contro un popolo libero.
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L’ipocrisia e la russofobia puntate contro chi racconta che i russi hanno invaso l’ucraina con il loro esercito e stanno consumando una guerra contro un popolo libero.
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L’ipocrisia e la russofobia puntate contro chi racconta che i russi hanno invaso l’ucraina con il loro esercito e stanno consumando una guerra contro un popolo libero.
«Mi spetterebbe – ripeteva il poeta Vladimir Majakovskij – un monumento da vivo». A noi basterebbe assai meno e cioè che finissero l’ipocrisia e la retorica sulla russofobia puntate contro chi racconta una realtà: i russi hanno invaso l’Ucraina con il loro esercito e stanno consumando una guerra contro un popolo libero. Ai tempi dell’Unione Sovietica, della caccia ai dissidenti, dei gulag e delle libertà soffocate, mentre buona parte dell’élite italiana, politica e culturale – a cominciare dal Pci, il Partito comunista più grande d’Occidente, e dagli intellettuali a lui vicini – difendeva l’indifendibile per chiunque tenesse alle libertà (come l’invasione d’Ungheria o i carri armati a Praga), i liberi stavano con chi in Urss rivendicava quelle libertà per le persone e l’autodeterminazione per i Paesi del Patto di Varsavia. È vero che gli equilibri disegnati a Yalta avevano diviso l’Europa e il mondo in due, ma non era una ragione sufficiente perché i sovietici calpestassero diritti senza che l’Occidente dicesse nulla. In Italia un libro come “Arcipelago gulag”, di uno scrittore russo che amiamo, Aleksandr Isaevič Solženicyn, venne accolto con una certa freddezza dagli intellettuali e da buona parte della sinistra. L’allora comunista Giorgio Napolitano, quando Solženicyn venne espulso dall’Urss dopo anni di persecuzioni, annotò: «Nessuno può negare che lo scrittore… avesse finito per assumere un atteggiamento di ‘sfida’ allo Stato sovietico e alle sue leggi (…)». Noi amiamo Solženicyn. E difendiamo i russi, oggi come allora. Li abbiamo difesi dal comunismo sovietico, essendo per decenni in minoranza, e oggi dalle ambizioni zariste di Vladimir Putin. Essere neutrali, nella Storia e nella vita, è una scorciatoia pilatesca che non porta nulla di buono. In Italia oggi si dibatte su una possibile mediazione di Romano Prodi o di Silvio Berlusconi sulla guerra russa in Ucraina, nella speranza di arrivare a una tregua. È il solito riflesso all’Alberto Sordi (il riferimento è ai suoi personaggi, ovviamente) nazionale. Tra Solženicyn e il potere sovietico chi amava le libertà non poteva che scegliere il primo. Tra gli ucraini che si difendono e i russi che hanno invaso il loro Paese, il terzismo non è una risposta. Le libertà stanno da una parte, e questo non significa essere anti-russi o russofobi. Anzi. La Storia è lì a rammentarcelo. Il fisico Andrej Sacharov aveva ragione e i suoi carcerieri comunisti torto. C’è un dialogo, che andrebbe ripubblicato in questi giorni di guerra russa in Ucraina, tra il poeta Iosif Brodskij e il suo giudice al processo in Unione Sovietica. Giudice: «Qual è la sua professione?». Brodskij: «Poeta, poeta e traduttore». Giudice: «E chi ha riconosciuto che siete poeta? Chi vi annovera tra i poeti?». Brodskij: «Nessuno. E chi mi annovera nel genere umano?». Giudice: «Avete studiato per questo?». Brodskij: «Per cosa?». Giudice: «Per essere un poeta! Non avete cercato di completare l’università dove preparano… dove insegnano…». Brodskij: «Non pensavo… Io non pensavo che ci si arrivasse con l’istruzione». Giudice: «E come?». Brodskij: «Io penso che… venga da Dio…». Giudice: «Avete richieste?». Brodskij: «Vorrei sapere perché mi hanno arrestato». Giudice: «Questa è una domanda, non una richiesta». Brodskij: «Allora non ho richieste». Lo condanneranno a cinque anni di lavori forzati. Al confino. Noi amiamo Brodskij. E difendiamo i russi. Tranne i carcerieri. di Massimiliano Lenzi

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