Certo, è il ‘metodo Draghi’: un passo alla volta, inesorabilmente, senza arrestarsi. L’abbiamo descritto noi, sicché non dovremmo stupircene. Però, ecco, qualche volta si spera in qualche falcata più ampia. Lo so che, dal 2009 a oggi, si sarebbe dovuta fare una legge concorrenza all’anno, per aggiornare il mercato, mentre se ne è fatta una sola e questa predisposta dal governo è la seconda, quindi già in sé un risultato, ma il tempo per osare è questo, mentre rinviare è un costume antico e forse prudente, ma non promettente.
Vero è che la questione delle concessioni pubbliche, nel settore balneare, non è stata accantonata, ma avviata con un censimento. E vero è anche che il governo Conte aveva prorogato tutto fino al 2033, senza neanche sapere quante sono e a chi sono assegnate. Una roba che non si poteva vedere. Ma dal governo che deve gestire la più grande quantità di quattrini europei ci saremmo aspettati maggiore determinazione e speditezza nel far rispettare le direttive europee.
E vedrete che i mal di pancia corporativi e protezionisti delle rendite si faranno sentire. Quel che conta è che a nessuno sfugga il nesso fra il dovere di sgabbiare il mercato – aprendo a maggiore concorrenza (quella che ha aumentato l’offerta e fatto diminuire i prezzi di telefonia e viaggi aerei, per capirsi) – e la realtà del mondo del lavoro.
Gli ultimi dati Istat sull’occupazione contengono notizie positive che richiedono ragionamenti, non festeggiamenti. Il prodotto interno lordo continua a crescere in modo vivace e superare il 6% (già acquisito) è molto significativo. Ma i riflessi sull’occupazione non sono altrettanto veloci. A luglio e agosto s’erano persi posti di lavoro. I dati relativi al mese di settembre riportano un confortante incremento, ma si deve guardarlo molto da vicino. Il tasso di occupazione sale al 58,3%, ma resta fra i più bassi in Europa.
La disoccupazione scende, si fa per dire, al 9,2%, ma resta altissima fra i giovani. A settembre abbiamo avuto 59mila occupati in più, ma, attenzione, i contratti a tempo determinato, a termine, sono cresciuti di 97mila unità. Essendo cresciuti più degli occupati vuol dire che se ne sono persi nell’area dei contratti a tempo indeterminato. Non è un dato necessariamente negativo – non condivido l’uso del concetto di ‘precariato’ (forse perché precario a vita), che spesso è sviante – ma quella concreta realtà urla la necessità di rimodulare il sistema pensionistico e non continuare a mettere rendite non basate sui contributi versati in conto a lavoratori che non si gioveranno mai di trattamenti neanche paragonabili.
Censis e Confcooperative hanno calcolato che solo per il capitolo transizione ambientale, alimentato con i fondi europei, da qui al 2025 si creeranno 2 milioni e 375mila posti di lavoro. Di questi, però, poco meno di un terzo è destinato a non essere coperto, per mancanza di profili coerenti. Significa che 148mila posti di lavoro all’anno, per un totale di 741mila, andranno a ingrossare le fila delle occasioni mancate piuttosto che dei contratti trovati.
Il che, a sua volta, inevitabilmente andrà a pesare sulla velocità della crescita, rallentando il Pil. La crescita mancata è futura sofferenza procurata, perché non si tratta solo di non volere correre per essere sempre più ricchi (cosa che dovrebbe creare entusiasmo), ma di rinunciare a vedere scemare il peso di un debito mostruoso sulla fiscalità dovuta da chi continua a correre (cosa che dovrebbe creare ripulsa).
Non è né bello né facile dire ai lavoratori che non si possono avere troppe protezioni. Per questo è doveroso dirlo anche a quanti difendono la protezione delle loro rendite.
Di Davide Giacalone
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