Quattro colpi nel petto, uno alla testa. Per un omicidio senza mandanti. Sono passati quindici anni dalla morte di Anna Politkovskaja, la giornalista di “Novaya Gazeta” uccisa nell’ascensore del palazzo di casa sua. Era il 7 ottobre, il compleanno di Vladimir Putin.
La sua morte fu la prima di tante, in Russia e non solo: anche per questo è diventata un simbolo. Scriveva di diritti umani violati in Cecenia, scriveva proprio contro Putin. E infatti nell’anniversario della sua morte sono stati fatti volare palloncini neri davanti all’ambasciata russa di Parigi. Perché i mandanti di quell’esecuzione non sono mai stati trovati. O meglio, non sono mai stati incriminati.
Cinque persone sono state invece condannate per aver organizzato e messo in atto il delitto. Ma nessuno è mai stato formalmente incriminato per averlo ordinato. E quindici anni dopo scadono i termini della prescrizione: per la giustizia non ci sono altre persone da incriminare. Sono i suoi colleghi, quelli che lavoravano con lei, i primi a non volersi però arrendere: dicono che cercheranno di portare avanti loro le indagini, di rivelare loro il nome di chi diede l’ordine di uccidere Anna.
Che rimane un simbolo del giornalismo che non si ferma e non abbassa la testa così come di un mondo in cui fare il proprio mestiere può ancora oggi costare la vita. Meriterebbero, lei e gli altri uccisi come lei, di avere giustizia. Perché lo sappiamo, in questi casi il tema vero non è mai chi materialmente ha sparato, ma piuttosto chi ha dato l’ordine di farlo.
Di Annalisa GrandiLa Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
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Tag: giornalismo, giustizia
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