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Parla Andrea Nicastro. Vita da inviato di guerra, combattente senza armi

Un vetro che si gonfia come un palloncino, la facciata del palazzo e la pietra che diventano fluide, molli, muovendosi come un’onda del mare. Un’esperienza fisica surreale. Così l’inviato del “Corriere della Sera” Andrea Nicastro, appena rientrato in Italia dopo mesi trascorsi in Ucraina, descrive l’esperienza di quando una bomba gli è caduta poco lontano. Non sa dire se sia stato sbalzato oppure no dall’urto né quanto sia durato il tutto, sa però con precisione una cosa: «È stata un’esperienza pazzesca». Com’è pazza questa guerra in cui è ambientato il suo ultimo libro – “L’assedio – Il romanzo di Mariupol” (Solferino) – che in primo tempo aveva pensato di chiamare “La guerra di Caino”. «Perché questo è un conflitto tra persone che mangiano cose simili, ascoltano la stessa musica, con alle spalle gli stessi traumi» racconta il giornalista. «Ho incontrato reduci dall’Afghanistan che hanno combattuto insieme e adesso sono l’uno contro l’altro armati». Anche se ormai è troppo tardi per credere che le tante cose in comune possano rappresentare una speranza alla quale aggrapparsi per una futura pace. Un enorme errore di valutazione di Putin che stride amaramente con la sua narrazione iniziale, di quando auspicava la riunificazione dei due popoli. Non solo non è più possibile ma la guerra ha esasperato le divisioni, alimentando un odio diffuso e incontrollabile. Di quest’ultimo come dell’amore Nicastro parla nel suo libro e quando gli chiediamo perché al reportage abbia preferito il romanzo la risposta è subito convincente: «C’era troppa umanità che negli articoli non riuscivo a far entrare. Qui volevo raccontare la trasformazione dell’uomo, dando spazio al dolore e a paure che mai avevamo visto così vicine negli ultimi 70 anni». Leggendo il suo romanzo s’intuisce come la guerra non sempre cambi le persone in peggio, tirando fuori aspetti di generosità santa anche da chi sembrava non avere queste risorse; come è vero che sia in grado di partorire mostri da chi invece sembrava civile. Si cambia, in battaglia. E si torna cambiati, come è accaduto a Nicastro a ogni ritorno. «I miei figli mi accusano di essere troppo cinico quando dico loro “Di cosa vi lamentate? C’è gente che non ha da mangiare”. Ma queste esperienze, inevitabilmente, hanno modificato la mia scala di valori». A proposito di mangiare, nei primi tre mesi in Ucraina l’inviato ha guadagnato 5 chili perché era diventato impossibile trovare posti dove rifocillarsi la sera per via del coprifuoco. Biscotti e cioccolata, la sua dieta serale ad accompagnare il ticchettio sul pc quando più o meno verso le 16 – ogni giorno – cominciava il suo lavoro di narratore dell’orrore: «Facile da fare quando hai raccolto abbastanza informazioni durante la giornata, più difficile quando non sei riuscito a portare a casa nulla. In quest’ultimo caso il lavoro si trasforma quasi in un’autoanalisi, provando a dare vita a delle agenzie fredde che si limitano ad annunciare l’ennesimo bombardamento. Solo chi è scappato per davvero da un bombardamento è però in grado di infondere certe emozioni agli accadimenti». È così che nasce un pezzo, è così che chi legge dal cellulare un articolo scritto a 2.400 km di distanza riesce a cogliere le sfumature e a provare empatia per le tragedie di una guerra lontana. Spirito d’adattamento, nervi saldi e una penna veloce. Sono queste le caratteristiche imprescindibili dell’inviato, un mestiere importantissimo messo a rischio dalla crisi dell’editoria e da fondi sempre più risicati. Di questa professionalità però non possiamo fare a meno. Ne va della verità, un’arma pacifica ma capace di colpire nel segno e che per questo fa molta paura. Di Ilaria Cuzzolin
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Un vetro che si gonfia come un palloncino, la facciata del palazzo e la pietra che diventano fluide, molli, muovendosi come un’onda del mare. Un’esperienza fisica surreale. Così l’inviato del “Corriere della Sera” Andrea Nicastro, appena rientrato in Italia dopo mesi trascorsi in Ucraina, descrive l’esperienza di quando una bomba gli è caduta poco lontano. Non sa dire se sia stato sbalzato oppure no dall’urto né quanto sia durato il tutto, sa però con precisione una cosa: «È stata un’esperienza pazzesca». Com’è pazza questa guerra in cui è ambientato il suo ultimo libro – “L’assedio – Il romanzo di Mariupol” (Solferino) – che in primo tempo aveva pensato di chiamare “La guerra di Caino”. «Perché questo è un conflitto tra persone che mangiano cose simili, ascoltano la stessa musica, con alle spalle gli stessi traumi» racconta il giornalista. «Ho incontrato reduci dall’Afghanistan che hanno combattuto insieme e adesso sono l’uno contro l’altro armati». Anche se ormai è troppo tardi per credere che le tante cose in comune possano rappresentare una speranza alla quale aggrapparsi per una futura pace. Un enorme errore di valutazione di Putin che stride amaramente con la sua narrazione iniziale, di quando auspicava la riunificazione dei due popoli. Non solo non è più possibile ma la guerra ha esasperato le divisioni, alimentando un odio diffuso e incontrollabile. Di quest’ultimo come dell’amore Nicastro parla nel suo libro e quando gli chiediamo perché al reportage abbia preferito il romanzo la risposta è subito convincente: «C’era troppa umanità che negli articoli non riuscivo a far entrare. Qui volevo raccontare la trasformazione dell’uomo, dando spazio al dolore e a paure che mai avevamo visto così vicine negli ultimi 70 anni». Leggendo il suo romanzo s’intuisce come la guerra non sempre cambi le persone in peggio, tirando fuori aspetti di generosità santa anche da chi sembrava non avere queste risorse; come è vero che sia in grado di partorire mostri da chi invece sembrava civile. Si cambia, in battaglia. E si torna cambiati, come è accaduto a Nicastro a ogni ritorno. «I miei figli mi accusano di essere troppo cinico quando dico loro “Di cosa vi lamentate? C’è gente che non ha da mangiare”. Ma queste esperienze, inevitabilmente, hanno modificato la mia scala di valori». A proposito di mangiare, nei primi tre mesi in Ucraina l’inviato ha guadagnato 5 chili perché era diventato impossibile trovare posti dove rifocillarsi la sera per via del coprifuoco. Biscotti e cioccolata, la sua dieta serale ad accompagnare il ticchettio sul pc quando più o meno verso le 16 – ogni giorno – cominciava il suo lavoro di narratore dell’orrore: «Facile da fare quando hai raccolto abbastanza informazioni durante la giornata, più difficile quando non sei riuscito a portare a casa nulla. In quest’ultimo caso il lavoro si trasforma quasi in un’autoanalisi, provando a dare vita a delle agenzie fredde che si limitano ad annunciare l’ennesimo bombardamento. Solo chi è scappato per davvero da un bombardamento è però in grado di infondere certe emozioni agli accadimenti». È così che nasce un pezzo, è così che chi legge dal cellulare un articolo scritto a 2.400 km di distanza riesce a cogliere le sfumature e a provare empatia per le tragedie di una guerra lontana. Spirito d’adattamento, nervi saldi e una penna veloce. Sono queste le caratteristiche imprescindibili dell’inviato, un mestiere importantissimo messo a rischio dalla crisi dell’editoria e da fondi sempre più risicati. Di questa professionalità però non possiamo fare a meno. Ne va della verità, un’arma pacifica ma capace di colpire nel segno e che per questo fa molta paura. Di Ilaria Cuzzolin

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