Classifica paperoni Forbes, cosa dobbiamo ancora imparare dai francesi
Italia e Francia, molti aspetti in comune eppure nella classifica Forbes soccombiamo. Le ragioni di un “flop” annunciato. Dominici: “Serve partire dall’Università”
Nei giorni scorsi è stata pubblicata la consueta lista delle persone più ricche del mondo stilata da Forbes, dove a sorpresa svettano due francesi: nel gradino più alto del podio Bernard Arnault a capo dell’impero LVMH e, in undicesima posizione, Francoise Bettencourt Meyers, ereditiera del gruppo L’Oréal, di diritto la donna più ricca del mondo. Al di là del prevedibile collasso in classifica dei paperoni del tech, val la pena riflettere sulle ragioni per cui l’Italia – rispetto alla Francia, paese con cui ha molto da spartire – non riesca a essere altrettanto incisiva in uno dei comparti in cui è più forte: il lusso.
Per trovare un italiano – dopo quello di Giovanni Ferrero che però ha più a che fare con la gola che con l’haute-couture – bisogna scendere fino alla 157esima posizione. Il nome è quello di Giorgio Armani, un uomo, un’azienda. Non un dettaglio, come ci spiega Christian Dominici, commercialista e consulente per alcune delle banche più importanti italiane, che ha studiato anche in Francia e che, dunque, conosce molto bene pregi e difetti di questo paese.
Dominici, perché secondo lei la Francia vince a mani basse questa classifica? Eppure le eccellenze non ci mancano, sbagliamo qualcosa forse?
Ci sono diverse considerazioni che si potrebbero fare sul perché l’Italia non riesca a essere altrettanto incisiva. Il problema è più che altro culturale. Noi italiani facciamo ancora molta fatica a delegare. Le aziende francesi crescono perché dietro ci sono grandi gruppi bancari che le finanziano e se lo fanno è perché si fidano del management e della formula imprenditoriale.
Intende dire che le nostre realtà non suscitano altrettanta fiducia nel sistema bancario?
E’ difficile fare dei paragoni. Ma è pur vero che le imprese francesi non sono così strettamente correlate a un solo nome, a una sola persona, come potrebbe essere il caso dei principali brandman italiani. Abbiamo dei bravissimi solisti ma rimaniamo sempre molto chiusi. E quindi relativamente piccoli. Da noi manca proprio il concetto di gruppo. La Francia, invece, ha trovato il modo di accorpare nel mondo della moda grandi gruppi che per questo sono diventati internazionali.
Quante volte si è detto di provare a creare il grande gruppo della moda italiana? Alla fine non ci siamo mai riusciti. E’ soprattutto un problema caratteriale. La verità è che i francesi sono più abituati a fare squadra e a stare assieme. Anche perché gli viene insegnato fin da ragazzi.
In che senso? Si spieghi meglio.
La Francia ha gli stessi problemi dell’Italia, un paese con grandi élite storiche che difendono molto bene la propria posizione. La Francia però è stata brava nel creare un sistema di grandi scuole, che sono sì elitarie ma danno molta importanza anche al merito che resta la chiave di accesso predominante. Chi vuole lavorare nella pubblica amministrazione, per esempio, va all’ENA (École nationale d’administration), oggi INSP; per quanto riguarda l’economia ci sono l’ESSEC Business School o l’HEC School of Management.
C’è da fare una premessa: l’università francese è più facile rispetto a quella italiana che invece è molto più teorica e nozionistica. Anche la composizione dei professori universitari è differente. Accade che in Francia un manager decida di prendersi una pausa e si metta a insegnare per un biennio. Da noi, invece, la gerarchia universitaria è molto più rigida. Diverso è anche il mondo studentesco. L’università italiana è molto più individualista, dove ognuno studia per sé; in Francia ci sono esami che non si possono dare se non in gruppo proprio perché ci sono progetti da portare avanti assieme agli altri studenti. Sembra un aspetto secondario ma ti abitua a fare squadra fin da subito.
Davvero può essere questo a fare la differenza?
Sicuramente ha il suo perché. Se ci pensiamo bene in un mondo in cui la modernità sembra spostata più a Oriente, come in India o nei paesi arabi, constatare che gli uomini più ricchi del mondo siano ancora nel vecchio mondo vuol dire che il sistema funziona. Bisogna fare lo sforzo di superare i personalismi.
E questo sembrerebbe un limite tutto italiano…
E’ un grosso limite. Nel caso dei principali brand italiani, che operano nel mercato del lusso, fa spesso effetto vedere un uomo solo al comando, senza che dietro di lui ci sia un 40enne pronto a portare avanti l’azienda. Prendiamo ora Gucci, del gruppo LVMH, e pensiamo a quanti giovani abbia lanciato negli ultimi anni. E’ vero hanno rischiato tanto cambiando diversi direttori creativi perché agli occhi del grande pubblico erano tutte figure nuove, però hanno avuto ragione. C’è un problema di delega.
Più frizzante e forse anche più competitività e accattivante, pensando al futuro della società?
Certamente. Le banche quando finanziano un’azienda non si fermano al qui e ora ma, giustamente, guardano anche in prospettiva. A livello creditizio è molto importante.
In Francia, per esempio, dietro a questi grandi gruppi ci sono anche grandi banche che sostengono tutto il sistema. Con le aziende crescono anche le banche e viceversa. Non puoi pensare che le due cose non vadano in parallelo. Per tanti anni la Francia ha cercato di rubare lo scettro finanziario a Londra. Non ce l’ha fatta perché poi le operazioni di tutto il mondo passano dalla City ma è comunque riuscita a creare grandi banche internazionali capaci di finanziare la crescita delle aziende francesi. Come dicevamo è tutto collegato: dalla scuola alle banche. Tutto contribuisce a un modello che nei numeri si dimostra vincente.
Di Ilaria Cuzzolin
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