Deinfluencer, influencer all’incontrario
Si possono influenzare i propri follower a consumare di meno, in maniera più etica: è quello che provano a fare i deinfluencer
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Si possono influenzare i propri follower a consumare di meno, in maniera più etica, a seguire la strada del riutilizzo e non dell’acquisto compulsivo, attraverso le stesse piattaforme che ci bombardano di inviti a spendere senza sosta? È quello che provano a fare i deinfluencer. Come per i tradizionali influencer la loro voce è al servizio dei social media, ma si leva per suggerire di allentare la frenesia del consumo e promuovere uno stile di vita più sostenibile e meno incentrato sull’idea di comprare e sprecare. Il loro messaggio è insomma che abbiamo già comprato abbastanza e che non necessariamente quel nuovo rossetto o quel nuovo paio di sneaker ci cambieranno la vita.
In ascesa negli Stati Uniti, il fenomeno del deinfluencing prende piede anche in Italia, dove diventano sempre più seguiti (soprattutto su TikTok) quei profili che promettono recensioni ‘oneste’ dei prodotti o si impegnano a ‘smontare’ la viralità di alcune trovate di marketing, in particolare quando si parla di rimedi cosmetici apparentemente miracolosi. «La contrazione del mercato dell’influencer marketing è avvenuta per i grandi nomi che hanno proposto iniziative o stili di vita discutibili. Ma più in basso, nella nicchia dei micro e mini influencer, questo calo non si nota e le cifre degli investimenti restano alte» spiega a “La Ragione” Nunzia Arillo, sociologa ed esperta di comunicazione. Nel 2024 le aziende hanno infatti investito 375 milioni di euro in progetti di marketing con la collaborazione di influencer. Un dato in crescita rispetto ai 352 milioni del 2023.
Dai primi progetti di questo genere di marketing sui social media a oggi, molto è cambiato. Da un lato sono emerse nuove app e piattaforme di shopping a basso costo che hanno reso il processo di acquisto ancora più accessibile, frenetico e immediato, con un’offerta di abiti, cosmetici e accessori praticamente infinita e a prezzi contenuti. Dall’altro, il pubblico ha però acquisito una sempre maggiore consapevolezza e non aderisce più a modelli acritici di consumo. «In questa dinamica il deinfluencer rappresenta un’evoluzione dell’influencer marketing perché punta a incarnare una coscienza critica che, rispetto a quello che propongono le aziende, fa da ‘avvocato’ nei confronti della propria comunità digitale cavalcando la maggiore consapevolezza etica» sottolinea Arillo.
Quando si parla di social media, le contraddizioni sono però sempre dietro l’angolo. Il rischio è infatti che il deinfluencing porti con sé una sorta di ‘moralismo del consumo’, in base al quale chi acquista certi prodotti viene visto in maniera negativa. «Alla nascita queste voci sono sempre portatrici di un cambiamento, ma il sistema in cui siamo immersi tende a inglobare anche le istanze di apparente rottura» spiega Arillo. «Se per un verso il pubblico è meritoriamente più sensibile agli effetti negativi delle dinamiche di consumo, per l’altro ha una naturale antipatia verso chi ne giudica le abitudini. Per cui spesso queste battaglie sfociano purtroppo in un moralismo dal quale è naturale voler rifuggire, perché ci fa sentire giudicati».
di Valentina Monarco
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