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“Adesso vogliamo vincere”, parla il direttore tecnico della Nazionale di rugby, Daniele Pacini

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L’Italia del rugby si riscopre grande come forse non lo è mai stata negli ultimi venti anni. L’intervista al direttore tecnico della Nazionale di rugby, Daniele Pacini

Daniele Pacini

“Adesso vogliamo vincere”, parla il direttore tecnico della Nazionale di rugby, Daniele Pacini

L’Italia del rugby si riscopre grande come forse non lo è mai stata negli ultimi venti anni. L’intervista al direttore tecnico della Nazionale di rugby, Daniele Pacini

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“Adesso vogliamo vincere”, parla il direttore tecnico della Nazionale di rugby, Daniele Pacini

L’Italia del rugby si riscopre grande come forse non lo è mai stata negli ultimi venti anni. L’intervista al direttore tecnico della Nazionale di rugby, Daniele Pacini

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Non è stato un miracolo, perché frutto di programmazione. Ma a vedere gli ultimi risultati verrebbe quasi da pensarlo. Dopo una deludente Coppa del mondo, l’Italia del rugby si è riscoperta grande come forse non lo è mai stata negli ultimi venti anni. A dirlo sono i risultati ottenuti nell’ultimo Sei Nazioni: il migliore della storia azzurra, frutto di due vittorie con Scozia e Galles e di un rocambolesco pareggio in Francia. E a sorridere non è soltanto la Nazionale maschile, perché le azzurre a fine marzo hanno ottenuto la prima vittoria della loro storia sul campo dell’Irlanda.

Insomma, un momento d’oro per il rugby italiano, che non si accontenta e punta ancora più in alto: «Nessuno partecipa a competizioni senza l’obiettivo di vincere. Quello che possiamo fare per provarci è dare il massimo in tutto quello che facciamo, dall’allenatore ai giocatori, passando per la Federazione». A dirlo è Daniele Pacini, 54enne direttore tecnico delle squadre nazionali, ex mediano di mischia, testimone diretto e in parte artefice della decisiva fase di passaggio dal percorso per diventare grandi al migliore risultato in un Sei Nazioni della storia azzurra: «Cosa è cambiato rispetto al passato? Iniziamo a raccogliere i frutti di quanto fatto negli anni precedenti. Il rugby ha bisogno di tempo: noi siamo entrati nel Sei Nazioni nel 2000 e ora, dopo vent’anni, abbiamo probabilmente acquisito quella consapevolezza e quella cultura necessarie per poter poi inserire i processi di alta prestazione senza i quali non si vince. Inoltre i giocatori oggi più esperti sono stati sottoposti negli ultimi anni a un processo di formazione molto qualitativo e intenso e adesso sono nel pieno della loro maturità».

Pacini ribadisce il concetto: il risultato dell’ultimo Sei Nazioni dev’essere l’inizio di un percorso vincente, non un punto di arrivo. Un progetto ambizioso affidato a Gonzalo Quesada, allenatore della Nazionale dallo scorso gennaio: «Con il presidente abbiamo scelto con molta attenzione il nuovo staff. Volevamo un allenatore latino con la capacità di capire i bisogni della squadra e che avesse inoltre nel suo bagaglio un’esperienza di altissimo livello per gestire un gruppo giovane con grandi potenzialità sotto tutti i punti di vista» spiega Pacini.

Se l’Italia del rugby cresce, la speranza è che possa farlo anche il bacino di praticanti. I giovani potrebbero essere spinti verso la palla ovale dai positivi risultati della Nazionale, un po’ come sta succedendo nel tennis grazie al fenomeno Sinner: «Me lo auguro. L’aumento dei praticanti è fondamentale e i successi nazionali sono un ottimo mezzo di promozione. Ma la crescita non potrà essere paragonata a quella del tennis perché non ci sono campi da rugby a ogni angolo e perché il rugby rimane uno sport di combattimento, anche se proponiamo in alternativa una variante senza contatto per allargare sempre di più la nostra famiglia». Il pericolo però rimane un altro: «Stiamo lavorando sul tema dell’abbandono sportivo. Per evitarlo puntiamo sull’aumento della qualità formativa, tecnica ma soprattutto umana».

Di Giacomo Chiuchiolo

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