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Alessandro Quarta tra i protagonisti del Premio Lunezia: “Non è il frac a far suonare bene un violino”

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Si apre questa sera la 30esima edizione del Premio Lunezia. Tra gli ospiti anche Alessandro Quarta, violinista di fama internazionale, insieme al suo quintetto

Alessandro Quarta

Alessandro Quarta tra i protagonisti del Premio Lunezia: “Non è il frac a far suonare bene un violino”

Si apre questa sera la 30esima edizione del Premio Lunezia. Tra gli ospiti anche Alessandro Quarta, violinista di fama internazionale, insieme al suo quintetto

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Alessandro Quarta tra i protagonisti del Premio Lunezia: “Non è il frac a far suonare bene un violino”

Si apre questa sera la 30esima edizione del Premio Lunezia. Tra gli ospiti anche Alessandro Quarta, violinista di fama internazionale, insieme al suo quintetto

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In una Piazza Gramsci ad Aulla (Massa-Carrara) che si preannuncia gremita, si terrà oggi alle ore 21.30 la prima serata dedicata alla 30ª edizione del Premio Lunezia, una delle manifestazioni più prestigiose del panorama musicale italiano. Un evento che celebra non solo la musica d’autore, ma la “musical-letterarietà”, quell’incontro tra parola e melodia che ha reso grande la nostra canzone.

Tra gli ospiti più attesi della serata c’è Alessandro Quarta, violinista di fama internazionale, che salirà sul palco accompagnato dal suo quintetto per reinterpretare in chiave personale e inedita alcuni dei brani che hanno fatto la storia di questa kermesse. La sua presenza rappresenta un ponte tra musica colta e canzone d’autore, in perfetta sintonia con lo spirito del Lunezia.
Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lui per conoscere meglio cosa porterà sul palco e l’emozione di prendere parte a una serata così prestigiosa

Com’è nata l’opportunità di partecipare a questa serata?

Mi ha chiamato Stefano (De Martino, conduttore della serata ndr) per propormi questa grande responsabilità. Ci eravamo conosciuti qualche anno fa e quando ha deciso di coinvolgermi per il trentennale del Premio Lunezia mi sono sentito orgoglioso e onorato. Parliamo di un premio che ha fatto davvero la storia della musica italiana. Stefano voleva che questa edizione speciale lasciasse il segno, mettendo in risalto i grandi nomi che in questi trent’anni hanno calcato il palco del Lunezia. Per me è un onore farne parte.

Lo ringrazio sinceramente per la fiducia e per la stima che mi ha dimostrato, stima che ovviamente ricambio. In più, mi ha dato la possibilità di interpretare i brani a modo mio, lasciando spazio alla mia musicalità e a quella dei musicisti che mi accompagnano. Questo, per me, è un grande segno di fiducia

Per il Premio Lunezia eseguirete alcuni brani simbolo della storia della manifestazione. Come avete scelto il repertorio?

Abbiamo scelto brani che hanno fatto la storia ma che mi toccano anche a livello personale. Mi coinvolgono emotivamente e appartengono a un tempo musicale che sento ancora vicino.

Per quanto mi riguarda oggi la musica non esiste più. O meglio, non mi interessa nemmeno ascoltarla. Oggi la musica è diventata puro business, tutta costruita, tutta ‘impostata’. La grande musica, quella vera, è stata scritta negli anni ’80, negli anni ’90 e qualcosa nei primi 2000. Poi, per me, si è fermata lì.

Con questa partecipazione ho voluto dare un volto al Premio Lunezia che fosse legato a quella musica che considero autentica. Per fortuna abbiamo avuto artisti come Dalla, Antonacci, Baglioni, Loredana Bertè… e tanti altri. Penso a “Laura non c’è” di Nek, “1000 giorni di te e di me” di Baglioni, “Dimmi di sì” dei Pooh. Quella era musica pop, ma era musica vera, che arrivava al cuore. Ecco, quella musica è rimasta indietro di qualche anno. Oggi, sinceramente, è meglio spegnere la radio: quello che passa non lo considero neanche musica.

Che sensazione hai provato nell’interpretare brani che hanno segnato la storia della canzone d’autore italiana?

È stata un’emozione meravigliosa. Per me e per i miei musicisti è stato qualcosa di davvero speciale. Ci tengo a nominarli, perché sono parte fondamentale di questo progetto: Giuseppe Mannino al pianoforte, Franco Cerri alle chitarre, Michele Colaci al basso e Cristian Martina alla batteria.

Quando si suona ci si emoziona come se quel brano fosse tuo. Perché in un certo senso lo diventa: lo fai tuo, lo reinterpreti unendo la tua storia, i tuoi ricordi, l’infanzia, gli amori, le delusioni, le lacrime, le gioie.

Quando interpreti “Dimmi che non vuoi morire” o “1000 giorni di te e di me“, non stai solo suonando una canzone: stai interpretando un ricordo. Ed è proprio questa la magia della musica.

È ciò che porteremo stasera sul palco del Premio Lunezia, nei suoi trent’anni di storia.

Secondo te, perché è importante che premi come il Lunezia continuino a esistere e portare avanti la loro missione?

L’onestà, per me, è una cosa fondamentale. Più importante anche di Sanremo. E lo dico con cognizione di causa, perché Sanremo, da qualche anno, non è più Sanremo dal punto di vista musicale.

Pensiamoci: una canzone, senza le parole, non sarebbe una canzone. Sarebbe un brano strumentale. E voi lo sapete bene: la musica strumentale, a meno che non sia collegata a un’immagine non ha lo stesso impatto, non arriva con la stessa forza.

La canzone nasce con le parole. Ha origine lontane: già nel Seicento, a Napoli, nasceva una forma di canto che ha dato poi vita alla canzone come la conosciamo oggi. E da lì, la parola ha iniziato ad avere più peso della musica. Com’è giusto che sia.

Poi è nata l’opera. E poi l’opéra comique in Francia. E ancora, l’opera lirica italiana, con Verdi, Puccini, Bellini, Donizetti… Ma sempre, al centro, c’era la parola. Perché è la parola che comunica, che emoziona, che resta.

E se guardiamo anche alcune delle canzoni che interpreteremo sul palco, ci accorgiamo di quanto le parole siano fondamentali. Quando canti, non canti fischiettando: canti le parole. Ed è proprio attraverso le parole che tante canzoni ci hanno accompagnato nella vita. Non è stata solo la musica, ma il testo, il messaggio.

Ecco perché l’onestà è così importante. E insieme a essa, lo sono anche tutti quei premi che valorizzano davvero la parola. Perché dare peso alle parole significa dare ancora più valore anche alle note, alla musica. E questa è una cosa che non dovremmo mai dimenticare.

Come è nato il progetto del vostro quintetto?

Avevo sì e no 13 o 14 anni. All’epoca era tutto un progetto che portavo avanti da solo, lavorando al computer – parliamo dei vecchi computer di quegli anni – con cui creavo delle basi musicali su cui poi suonavo.

I primi concerti dal vivo sono arrivati più avanti, ma non si trattava ancora del quintetto attuale. Era una formazione diversa: un quintetto con una sezione di fiati – tromba, trombone e sax – e un percussionista. Quindi eravamo in tanti! Era il 2006, e già allora proponevamo i brani del mio disco One More Time, che poi ho registrato nel 2010.

Il vero Alessandro Quarta Quintet, così come lo conoscete oggi, nasce tra il 2006 e il 2008. Diciamo che dal 2008 in poi ha iniziato a prendere forma in modo stabile. Se faccio i conti, arriviamo al 2025 con quasi vent’anni di storia!

Il salto mediatico, però, è arrivato nell’agosto del 2016 con un progetto che è stato unico al mondo: “Alessandro Quarta Plays Astor Piazzolla“. È da lì che il quintetto ha iniziato a farsi conoscere davvero, anche al grande pubblico.

Il violino è spesso associato alla musica classica, ma nella storia – e ancora oggi – ha trovato spazio in contesti folk, pop e non solo. Come vivi questa versatilità dello strumento?

Il violino è sempre stato etichettato in modo un po’ limitante: lo strumento dei poveri che chiede l’elemosina, quello che suona tra i tavoli a un matrimonio, oppure quello dell’orchestra, dove chi lo suona è vestito da “pinguino”, in frac, insieme ad altri musicisti in frac, tutti lì a rendere omaggio al direttore d’orchestra. E poi, ahimè, alla fine è sempre il direttore a prendersi tutti gli applausi, mentre l’orchestra, che è quella che suona davvero, resta nell’ombra.

Beh, diciamo che non è proprio così. Anzi, assolutamente no. Io sono anti-frac. Per quanto, lo ammetto, il frac mi stia anche bene… però sono comunque contro quel tipo di formalismo. Perché? Perché non è il frac che ti fa suonare bene il violino, così come non è il jeans che ti fa suonare bene il rock.

Mi hanno un po’ stufato tutte queste convenzioni, questi cliché. Credo che sia importante andare oltre. Bisogna essere autentici. Con coraggio, sacrificio e tanta dedizione, ho cercato di cambiare il volto del violino. E credo di esserci riuscito. Di far capire che non è solo quello strumento che per secoli è stato incasellato in certi ruoli. E oggi, grazie anche a questo percorso, molte persone, molti fan, lo guardano in modo nuovo

Hai ricevuto diversi riconoscimenti per la tua musica e il tuo lavoro. Cosa rappresentano per te e che ruolo hanno avuto nel percorso della tua carriera?

I premi che ho ricevuto sono tutti in un cassetto. Nel senso che sono importanti nel momento in cui li ricevi, ma poi, appena torni a casa, li hai già dimenticati. È il mio modo di essere: mi piace sempre guardare avanti.

Se oggi scopro qualcosa di nuovo, me lo godo, lo osservo, lo apprezzo… ma poi lo metto via. Chiudo quel cassetto e cerco qualcosa di nuovo da scoprire. Certo, sono onorato e felice per i riconoscimenti ricevuti: per ciò che ha detto la CNN, per le parole del Quirinale, per il premio dell’UNESCO e tante altre cose. Ma per me è importante non fermarsi. I premi vanno bene, ma non devono diventare un punto d’arrivo.

Alla fine, non sono i premi a definirti. Il curriculum, ragazzi, serve a poco. Quello che conta davvero sono i fatti. Sono le cose che fai, che lasci. Pensateci: tanti dei più grandi rocker conoscevano poco l’armonia nel senso accademico del termine, non come la padroneggiano i compositori classici. Ma ci hanno messo cuore. Ci hanno messo verità, semplicità.

E spesso, la semplicità è molto più difficile da creare rispetto a qualcosa di complesso. Ed è proprio per questo che vale di più.

di Federico Arduini





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