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Beniamino Zuncheddu

Parla Beniamino Zuncheddu: “Lasciatemi in pace”

Protagonista del più lungo errore giudiziario di cui si abbia memoria, Zuncheddu scontò quasi 33 anni in carcere per un triplice omicidio che non ha mai commesso. L’intervista completa

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Parla Beniamino Zuncheddu: “Lasciatemi in pace”

Protagonista del più lungo errore giudiziario di cui si abbia memoria, Zuncheddu scontò quasi 33 anni in carcere per un triplice omicidio che non ha mai commesso. L’intervista completa

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Parla Beniamino Zuncheddu: “Lasciatemi in pace”

Protagonista del più lungo errore giudiziario di cui si abbia memoria, Zuncheddu scontò quasi 33 anni in carcere per un triplice omicidio che non ha mai commesso. L’intervista completa

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Protagonista del più lungo errore giudiziario di cui si abbia memoria, Zuncheddu scontò quasi 33 anni in carcere per un triplice omicidio che non ha mai commesso. L’intervista completa

Ci dev’essere qualcosa di sovrannaturale in un uomo capace di sopportare quel che ha sopportato Beniamino Zuncheddu da Burcei (meno di 3mila abitanti fra i monti del Sud Sardegna). Si sarebbe portati a pensarlo già solo leggendo le cronache della tragedia vissuta da questo servo pastore che voleva soltanto vivere in pace con sé stesso, i suoi animali e il prossimo, e che è stato catapultato invece nel ruolo di protagonista del più lungo errore giudiziario di cui si abbia memoria: quasi trentatré anni in carcere per un triplice omicidio che non ha mai commesso né avrebbe potuto commettere, perché al momento dei fatti era altrove. Ma se – com’è capitato a noi – si ha la fortuna e il piacere di trascorrere al fianco di questo uomo mansueto e gentile (a tratti anche spiritoso e autoironico) molto più tempo di quello che di solito è riservato a un’intervista, quella sensazione iniziale si consolida fino a diventare certezza.

Le parole che state per leggere sono il risultato di lunghe conversazioni a pranzo e a cena, di interviste pubbliche, di chiacchierate frivole, di scambi volanti nelle pause per fumare (Beniamino vuole sempre fumare), di confidenze amichevoli, di abbracci e affetto sincero. Non basteranno a riassumere il dolore durato un terzo di secolo. Ma contribuiranno almeno a dare l’idea dell’uomo.

«A Buoncammino in certi periodi eravamo in undici a condividere una cella per quattro. E chi non trovava posto sui letti a castello dormiva in terra su assi di legno» dice serio se gli chiedi di raccontare il carcere. «Era disumano: un solo bagno a vista, per giunta alla turca, da usare in dodici persone. Se eri fortunato la doccia ti toccava una volta alla settimana, altrimenti aspettavi anche un mese». Zuncheddu ha conosciuto tre diversi istituti penitenziari: «A Badu ’e Carros le celle erano decenti e poi almeno ci facevano andare al campo da bocce una volta al mese». Se non sei capace di accontentarti di poco, in carcere non sopravvivi: «Ti trattano come animali, colpevoli e innocenti. Ma siamo tutti esseri umani, anche chi sbaglia non merita quelle condizioni».

Dietro le sbarre tutti dicono di essere innocenti. A un occhio esterno diventa dunque impossibile capire chi lo sia davvero e chi no. Fra detenuti è diverso: di Beniamino lo avevano capito subito. Così mite e pacato, si era addirittura creato una certa autorevolezza grazie a quello che faceva per gli altri: «Cercavo di aiutare chi stava peggio di me, i più deboli e indifesi in quell’ambiente tremendo. Avevo un compagno di cella tossicodipendente che stava seguendo la terapia sostitutiva a base di metadone. Non potevo più vederlo stare così male, dunque un giorno usai le maniere forti: “O smetti di prendere quella roba oppure cambi cella”. Lo facevo per il suo bene, ma lui non poteva capirlo e continuò la terapia. Mentre non c’era, presi tutta la sua roba e gliela feci trovare vicino alla porta della cella. Scoppiò a piangere, giurò di smettere. Soffrì moltissimo l’astinenza, ma alla fine riuscì a liberarsi da quella schiavitù. Siamo diventati amici, la madre mi scriveva ogni settimana per ringraziarmi». Pensare agli ultimi vuol dire anche preoccuparsi delle loro piccole necessità: «Lavoravo in cucina e a fine giornata prendevo un bel po’ di prodotti per portarli in cella. I poliziotti pensavano che volessi rivendermeli, ma quando facevano le perquisizioni non trovavano mai nulla. Per forza: regalavo tutto ai detenuti a cui le famiglie non mandavano soldi per comprarsi il cibo».

Non ha una ricetta per resistere al carcere da innocente: «Non so dove ho preso la forza. Anzi, lo so: dalla mia famiglia che aspettava là fuori. L’idea di farla finita non mi ha mai sfiorato, neanche per un attimo. Ho pensato sempre e soltanto alla libertà». Anche ora che è in giro per l’Italia con il libro sulla sua storia (“Io sono innocente”, scritto con il suo avvocato Mauro Trogu, ne scriveremo presto su queste pagine), accolto ovunque con gioia e rispetto, Beniamino resta quello di sempre. Inutile provare a chiedergli se ora sogna di visitare Parigi o New York, Napoli o Firenze: «Voglio solo starmene in pace a chiacchierare con gli amici al bar. E tornare a occuparmi dei miei animali». Avrebbe apprezzato che qualcuno si scusasse: «Le istituzioni non mi hanno cercato, ci sono rimasto male. Solo il papa ha voluto incontrarmi, poi non se n’è fatto nulla per suoi problemi di salute».

E l’uomo che con la sua testimonianza gli ha rovinato la vita per sempre? «L’ho perdonato. A un certo punto ho capito che continuare a provare rabbia nei suoi confronti non mi avrebbe portato a nulla di utile. Così ho deciso che tanto valeva perdonare».

di Valentino Maimone

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