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Conta l’esempio, parla Beppe Bergomi

Beppe Bergomi si racconta durante il primo appuntamento del ciclo di incontri “Voci e storie con La Ragione”: “Auguro ai giovani di incontrare dei maestri di vita”
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Era così giovane nell’ormai remota notte della più clamorosa gioia collettiva vissuta dagli italiani – l’11 luglio 1982 – da aver accompagnato un’intera generazione. Beppe Bergomi, primo ospite con Lapo De Carlo (autore de “Ogni singolo istante”) della kermesse culturale “Voci e Storie con La Ragione” a Milano, è uno dei rari esempi di campione pienamente identificabile anche da chi ha una dimestichezza relativa con il pallone. Effetto di quell’indimenticabile Mundial, lui ragazzino con i baffi in mezzo a una squadra di totem. Poi, l’ormai tramontata idea di legarsi a una sola maglia e dell’identificazione totale con i propri colori. Principi desueti. Non un giudizio, solo la constatazione da cui siamo partiti per ragionare di valori che vanno ben oltre il rettangolo di gioco. «Nei primi 10 anni della mia carriera – ricorda Beppe Bergomi – ho faticato poco, ho avuto la fortuna di inserirmi in due gruppi di eccezionale livello all’Inter e in Nazionale, seguendo un percorso che allora era lineare: se c’erano talento, spirito di sacrificio e disponibilità a imparare, dalla Primavera ci si affacciava alla prima squadra. Pressioni molto relative, un’attenzione mediatica neppure lontanamente paragonabile a quella odierna. Per un ragazzo era oggettivamente più facile crescere nel mondo dello sport. Forse crescere e basta». Bergomi ci tiene a riflettere sulle differenze (talvolta abissali) fra il mondo in cui è cresciuta la nostra generazione e quella dei nostri figli, ma senza cedere ai giudizi frettolosi o cercare nel passato una mitologica ‘età dell’oro’. «Ho avuto l’enorme fortuna di vivere il 1982 e di aver avuto un capitano, Dino Zoff, che a quarant’anni con la sua sola presenza indicava la strada e un modo di comportarsi. Ecco, questo augurerei ai ragazzi: incontrare dei maestri. Il che non significa necessariamente impartire lezioni, ma essere capaci di dare l’esempio con l’esperienza e i risultati raggiunti in qualsiasi campo della vita. C’è un’immagine – continua – che forse ricorderete: Antonio Cabrini che mi dà una carezza al momento in cui devo esordire al Mondiale contro il Brasile, sostituendo Collovati sul 2-1 per noi. Contro Zico, Socrates, Falcao, Junior, Eder. Nomi che fanno venire ancora i brividi. In quella carezza c’è un mondo, un modo di farti sentire partecipe». Visto con gli occhi di oggi, Beppe Bergomi è l’ex capitano dell’Inter e della Nazionale, l’apprezzato commentatore che urla di gioia al Mondiale del 2006 («Che culo ragazzi, primo Mondiale per la tv e vinciamo. Come fai a non pensare a Bruno Pizzul che ne ha raccontati sei e si è fermato in semifinale e finale…») ma per capire perché sia così devi chiedergli di chi ha segnato la sua giovinezza: «Ho visto e ammirato Enzo Bearzot, ricordo ogni respiro di quando Eugenio Bersellini mi fece esordire all’Inter con un secco “Riscaldati, ragazzo”. Di Cabrini vi ho detto, ma come fai a non pensare a Paolo Rossi. Per anni l’italiano più famoso nel mondo era di una semplicità assoluta, inconcepibile. E poi Gigi Riva, l’hombre vertical. Non lo dico perché se n’è appena andato, ma in Nazionale la sua presenza occupava lo spazio, il carisma era spaventoso». Da campione di un calcio cambiato – senza nostalgia e rimpianti – arriva un appello: «È più difficile per i ragazzi di oggi. Gli stimoli sono diversi, sono bombardati da sollecitazioni che neppure ci sognavamo. Evitiamo di archiviare le loro abitudini come errori ed esagerazioni solo perché non le capiamo. Offriamo il sostegno dell’esempio, restituiamo qualcosa ai nostri figli. Questo non significa – aggiunge – che noi non fossimo inseguiti da critiche o antipatie. Ricordo ancora quanto fossero severi e intransigenti i tifosi della tribuna arancio di San Siro. A volte per me era un incubo giocare da quella parte del campo…». Se c’è un momento in cui il passato sembra pesare è quando Bergomi parla dei campioni incrociati: «Che fenomeni, il più duro di tutti era Marco Van Basten. Alto, grosso, agonisticamente cattivo, ti gettava la terra negli occhi per non farsi marcare. Tanti altri, per carità, poi lui: Diego. Maradona apparteneva a un’altra categoria, la sua. Quante botte (altro che oggi) e mai una lamentela. Si rialzava, ti stringeva la mano e via. Ognuno fa le sue scelte, non mi interessa. So che i compagni lo adoravano perché dava l’anima per loro. Questo mi basta». Di Fulvio Giuliani

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