“Pupi Avati: serve il cinema di genere”, intervista al Maestro del gothic
Intervista al maestro del cinema gothic Pupi Avati, reduce da “L’orto Americano”, film di chiusura della Mostra del Cinema di Venezia
“Pupi Avati: serve il cinema di genere”, intervista al Maestro del gothic
Intervista al maestro del cinema gothic Pupi Avati, reduce da “L’orto Americano”, film di chiusura della Mostra del Cinema di Venezia
“Pupi Avati: serve il cinema di genere”, intervista al Maestro del gothic
Intervista al maestro del cinema gothic Pupi Avati, reduce da “L’orto Americano”, film di chiusura della Mostra del Cinema di Venezia
Intervista al maestro del cinema gothic Pupi Avati, reduce da “L’orto Americano”, film di chiusura della Mostra del Cinema di Venezia
Con il film horror “L’orto americano”, Pupi Avati chiude l’ottantunesima Mostra del Cinema di Venezia, “per me è stata la decima volta a Venezia”, dice il Maestro del gotico, “si tratta di un lungo percorso cominciato nel 1983 con il mio film ‘Una gita scolastica’, poi sono stato lì anche in veste di giurato, ho anche fatto un film sul Festival di Venezia che si chiama “Festival”, aveva come protagonista Massimo Boldi”.
Dopo la proiezione ci sono stati lunghi applausi, “sì, il pubblico mi ha accolto in modo trionfale e se posso dire anche riconoscente, perché forse dopo diversi film che inducevano a una riflessione, il mio invece ha prodotto una tensione, niente di più che una tensione”. Si avverte nella voce il grado di appagamento di questa esperienza da poco conclusa, il regista continua: “per me Venezia è il Festival, se immagino l’archetipo del Festival non penso a Cannes o a Berlino, penso a Venezia. Il fatto che la Mostra del Cinema abbia chiuso con un film di genere è motivo di apprezzamento anche nei riguardi del suo Direttore e del Presidente della Biennale perché il genere fa parte della storia del cinema e deve essere scritto a caratteri maiuscoli.”
Ma cosa è cambiato nel tempo? Perché oggi il genere è considerato meno rispetto a prima?
“Dal 1968, quando tutto venne sconvolto, parlo della proposta culturale in generale, ci sentimmo tutti liberi di fare qualunque cosa, soprattutto sull’esempio francese, noi ereditammo questa idea di cinema d’autore per cui si smise di scrivere ‘regia di’ ma nacque questa didascalia: ‘un film di’ che sintetizzava il fatto che il film era di proprietà intellettuale di una moltitudine di persone (chi aveva realizzato il soggetto, la sceneggiatura, il montaggio, qualunque apporto creativo al film in qualche modo aveva a che fare con il suo autore), da qui il cinema d’autore che in certi casi continua ancora a funzionare si è allargato all’intera proposta cinematografica, considerando di serie B il genere cinematografico che appunto verteva sui vari generi, per esempio: il western di Sergio Leone o l’horror di Mario Bava. I generi venivano praticamente interpretati attraverso delle regole alle quali poi si contribuiva nella creatività quindi personalizzando queste regole, ma in una dose più contenuta”.
Continua: “Me lo ricordo da ragazzo quando dicevamo ‘questa sera mi voglio divertire!’ e andavamo a vedere un film con Jerry Lewis, oppure ‘stasera mi voglio spaventare!’ e andavamo a vedere un film di Hitchcock. Ecco, nel tempo, queste regole sono state totalmente disattese, ogni autore è diventato genere di sé stesso. C’è il genere Moretti, il genere Amelio, il genere Garrone e sto parlando delle eccellenze, però ci sono anche dei sottoprodotti che non hanno qualcosa di totalmente personale da dire, e questo coinvolge in gran parte le sale italiane, mentre gli americani hanno continuato a rispettare questa regola. Tornare con un po’ di umiltà a considerare i generi, in un momento di crollo verticale nel rapporto fra la proposta italiana e il suo pubblico, mi sembra che sia un tentativo doveroso da fare. Se non altro una considerazione da non sottovalutare”.
L’orto americano – tratto dall’omonimo romanzo edito da Solferino nel 2023, scritto dal regista bolognese come prima Il signor Diavolo e L’Alta Fantasia, il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante – è girato in buona parte negli Stati Uniti, nello specifico nell’Iowa a Devenport, “mi è venuta una grande nostalgia a tornare in quel luogo”, ammette il regista, “anni prima, io e mio fratello Antonio abbiamo lasciato molti amici lì, oltre a una casa dove abbiamo girato il primo film della nostra avventura americana: ‘Bix’, che racconta la vita del famoso trombettista Bix Beiderbecke. Erano più di dieci anni che non tornavamo negli Stati Uniti, c’era un po’ di stupore, c’era la paura di rimanere delusi da questo ritorno, invece siamo stati accolti dalle stesse persone – questa comunità del Midwest, dell’America profonda – con grande affetto. È stato bello ritrovarli dopo tanti anni – alcuni purtroppo non ci sono più – con lo stesso entusiasmo e la stessa ingenuità. Dico ingenuità perché non siamo in California, questo è uno stato che il cinema ha solo sfiorato, per loro essere coinvolti nella realizzazione di un film è una cosa eccitante e commuovente”.
A questo punto il Maestro del gotico sorride: “abbiamo fatto al contrario rispetto a quello che fu Hollywood sul Tevere, in quei giorni eravamo noi italiani a portare il cinema in America”. Qualcuno dopo la proiezione ha sentito il bisogno di menzionare il cult del 1976 “La casa delle finestre che ridono” facendo un accostamento all’ultima pellicola in bianco e nero che presto sarà nelle sale, ti ritrovi? “Io mi ritrovo in una continuità, in una coerenza”, dice Avati, “ci si stupisce se sono coerente, ci si stupisce se faccio delle cose che si assomigliano fra di loro, ma io sono io, sicuramente sono un regista eclettico, forse il più eclettico del cinema italiano, praticamente ho raccontato tutti i mondi, non mi sono privato del piacere di affrontare contesti diversi e delle opportunità narrative che mi dà la fantasia”.
A proposito di opportunità narrative, in che modo la tua fantasia e la tua creatività vengono limitate quando scrivi per il cinema rispetto alla scrittura narrativa? “Il romanzo è una forma più completa del narrare perché ti permette l’indugio, la riflessione, ti permette di raccontare il pensiero, ti consente di arricchire il tuo racconto di una serie di informazioni che il cinema stenta a comunicare, lo spettatore deve in qualche modo desumerle dai primi piani, dagli sguardi, da una tipologia di montaggio, mentre la letteratura ti permettere di aprire delle parentesi affascinanti; io adoro scrivere, penso che sia una delle forme espressive più esaustive, più complete in cui non sei sporcato dal tuo rapporto con il denaro che richiede sempre una forma di compromesso rispetto a quello che vorresti fare e quello che puoi fare. Devi mediare tra il denaro e la tua creatività. Nel cinema hai molti vincoli, primo fra tutti il budget, quindi non puoi scrivere in modo completamente libero, devi fare i conti con i costi di produzione. In un libro nessuno ti dice: ‘toglie questa riga perché costa troppo!’.”
In questo periodo si sta parlando molto della situazione di crisi del cinema in Italia, di come le realtà indipendenti soffrano per l’attuazione di alcune normative dannose per le realtà più piccole, qual è il tuo pensiero? “Io amo ancora il basso costo, bisognerebbe dare vita a una cattedra del basso costo perché i grandi capolavori del cinema italiano sono stati fatti in larga parte con dei mezzi molto contenuti, non è il grande budget che fa la qualità di un film, è il grande cuore di chi lo racconta, delle persone che sono coinvolte, la bellezza della storia. È bello avere una troupe ridotta di persone molto fedeli, molto motivate, non è necessario avere intorno un esercito di cento persone. Oggi bisogna trovare una forma di ragionevolezza, una forma di mediazione. Nel nostro Paese, purtroppo, prevale la politica sulla competenza”.
di Hilary Tiscione
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