Ivan Cattaneo racconta “Due.I”: “Uno scrigno multimediale”. E su Battiato: “Lo adoravo, ma litigavamo sempre sull’arte”
Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Ivan Cattaneo, artista poliedrico e cantautore, tra le penne più note della musica italiana
Ivan Cattaneo racconta “Due.I”: “Uno scrigno multimediale”. E su Battiato: “Lo adoravo, ma litigavamo sempre sull’arte”
Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Ivan Cattaneo, artista poliedrico e cantautore, tra le penne più note della musica italiana
Ivan Cattaneo racconta “Due.I”: “Uno scrigno multimediale”. E su Battiato: “Lo adoravo, ma litigavamo sempre sull’arte”
Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Ivan Cattaneo, artista poliedrico e cantautore, tra le penne più note della musica italiana
C’è chi pubblica un disco, chi un libro, chi un progetto visivo. E poi c’è Ivan Cattaneo, che riesce a farli tutti insieme e a farli convivere in un unico, grande esperimento di libertà creativa.
Venerdì 31 ottobre esce “DUE.I” , un’opera che è molto più di un album: un progetto multimediale che fonde musica, arte visiva, letteratura e videoarte. Dentro, cinque supporti fisici – quattro CD e un DVD -, un romanzo, aforismi, poesie, arte e due anime complementari: “Titanic-Orkestra” e “Un Mammifero che Canta”. La prima parte è un concept album ambizioso, dove ventiquattro personaggi immaginari salgono idealmente sul Titanic per raccontare, ciascuno con la propria voce, una storia di sogni, naufragi e rinascite. La seconda è un viaggio autobiografico: cinquant’anni di carriera rivissuti attraverso parole, dipinti, poesie e canzoni ricantate, come un autoritratto in movimento.
Con “DUE.I”, Cattaneo conferma la sua vocazione di artista indisciplinato e sperimentale, capace di unire ironia, sarcasmo e poesia in un linguaggio tutto suo. Un progetto che parla di diversità, identità e libertà con lo stesso spirito giocoso e profondo che attraversa tutta la sua storia artistica. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare come nasce un’opera così complessa e personale

Com’è nato questo progetto?
È un esperimento, qualcosa di davvero nuovo. L’idea nasce vent’anni fa. Io creo tanto, ma divulgo poco. Scrivo, suono, dipingo, ma spesso tutto resta nel cassetto. Poi accumuli, accumuli… e diventa come una gravidanza isterica: hai bisogno di condividere. Però la discografia di oggi non vuole progetti così. I ragazzi non scaricano più i dischi, ascoltano al volo, senza copertina, senza attenzione. Finché una sera ho parlato con Marco Rossi di Azzurra Music: gli ho raccontato tutto il progetto. Lui ne è rimasto affascinato.
E tutto il materiale era già pronto?
Sì, ma è stato faticoso selezionarlo. Alcune canzoni erano già abbinate a certi personaggi, altre le ho aggiunte dopo. Ci sono anche inediti, mai sentiti da nessuno. Una addirittura del 1973: Madama di Vento.
L’ho scritta a vent’anni, una sera a casa di Nanni Ricordi, con Fabrizio De André. Lui era alticcio, mi prendeva in giro: “Madama diventa… madama divento!”. Ma gli piaceva il titolo. È rimasta nel cassetto per decenni. Poi il direttore d’orchestra Pinuccio Perazzoli, che lavorava con Conti per Sanremo, mi disse: “Devi portarla a Sanremo, è troppo bella”. Ma Conti voleva un nome più televisivo, mi propose di darla a Patty Pravo… che però non l’ha mai fatta sua.
E invece il concept del Titanic com’è nato?
È partito da un romanzo, scritto un paio d’anni fa, con un finale molto forte. L’idea era legata alla tecnologia e al Titanic stesso, che era la nave più “tecnologica” del suo tempo.
Ci sono 19 personaggi (che poi diventano 24) che si imbarcano sul Titanic. Devono esibirsi in un teatrino per compiacere un “cattivo”, il mio alter ego di 100 anni prima. È una storia dentro la storia, una matrioska di racconti, musica, immagini. E alla fine – senza spoiler – il messaggio è chiaro: la tecnologia ci illude di essere liberi, ma ci soggioga.
Ti riferisci ai social, a TikTok, alla dipendenza digitale?
Sì. È come con le patatine fritte: inizi e non smetti più. Ti senti libero, ma l’algoritmo ti controlla. Se guardi un paio di mutande, vedrai solo mutande. Se ti piacciono le zeppe, vedrai solo zeppe. È una falsa libertà. Pasolini lo diceva già cinquant’anni fa: il vero pericolo è il consumismo e la tecnologia che ci fanno credere liberi, mentre ci dominano. Io leggo ancora libri di carta: è l’unico posto dove non c’è pubblicità… almeno per ora.

Nel libro dici “odio le classifiche e i pregiudizi” e critichi i concerti-karaoke di oggi. Cosa intendi?
Oggi ai concerti la gente non filma più l’artista, ma se stessa. È un karaoke collettivo. È gratificante, certo, ma la voglia di ascoltare qualcosa di davvero nuovo non c’è più. Tutto è diventato un enorme karaoke. Solo a Sanremo c’è ancora un minimo di attenzione per la canzone inedita.
Parliamo del lato visivo: i video, le immagini, l’intelligenza artificiale.
Nasco prima come pittore che come cantante. Gianni Ricordi mi lanciò come “cantapittore”. Nei miei nuovi lavori ho unito pittura, musica e video. Ma non sono videoclip: sono video “rubati” da internet, mescolati con i miei quadri, con frammenti di intelligenza artificiale e le mie musiche. Creo un immaginario nuovo, un collage. Il videoclip tradizionale è morto. I ragazzi non guardano più MTV, non guardano neanche i video su YouTube: ascoltano e basta.
Per sopravvivere, i video dovrebbero essere come quelli di Michael Jackson, con registi e budget enormi. Altrimenti è sempre lo stesso playback davanti alla telecamera. Ai tempi di Mister Fantasy c’era ancora gioco, invenzione. Oggi no: è tutto visto e rivisto.
Quindi Mister Fantasy era davvero un linguaggio nuovo per l’epoca?
Sì, assolutamente. Era un linguaggio nuovo. Tutte le scenografie, tra l’altro, erano fatte con i miei quadri. Era un programma molto avanti per i tempi, ma non ho mai capito perché non lo trasmettano più. Eppure erano video fatti bene, studiati con cura. Lo studio era particolarissimo: tutto bianco, un po’ asettico, quasi chirurgico. C’era Massarini, poi Luzzatto Fegiz… Tutto molto bello. Ma non ne hanno più fatto vedere nulla.
Oggi nel mondo dei media e della tecnologia c’è così tanta offerta, ma spesso poca sostanza. Tu come vivi questo scenario?
È vero, è tutto troppo, eppure non c’è niente. Non ne vale quasi la pena. Però io resto legato a certe cose. Mister Fantasy era carino, anche se per me era un gioco. Io ero un cantautore, ma con la Caselli e Zanetti decidemmo di fare qualcosa per gioco. Io volevo rifare “Nessuno mi può giudicare” con Caterina Caselli, che non cantava da vent’anni. Lei mi disse “sì, fallo!”. Doveva essere una sola canzone, poi sono diventate dodici, e doveva essere la colonna sonora di Mister Fantasy.
Il successo fu enorme, e da lì nacque tutto un filone revival, “Sapore di mare“, “Bandiera Gialla“… Ma quel successo mi ha anche imprigionato: non riuscivo più a uscirne e le mie cose da cantautore dovevano scontrarsi con brani ormai iconici. Era diventato tutto molto difficile.

Immagino quanto sia complicato per un artista far capire di non essere solo “una cosa”.
Esatto. Il mondo della televisione è riduttivo: se fai il cantante, sei solo cantante; se dipingi, la gente si confonde; se scrivi, non ti capiscono. Bowie dipingeva, ma non era “il pittore”. Anche Battiato dipingeva, ma litigavamo spesso perché secondo me faceva cose scolastiche.
C’è un episodio nel libro: io e Franco facemmo una mostra insieme al Museo Revoltella di Trieste, “Musica senza suono”. Sopra, al piano di sopra, c’era una mostra su Basquiat. Io lo adoro. Lui mi dice: “Andiamo su a vedere Basquiat”. Dopo cinque minuti torna giù e dice: “Se hai visto un quadro, li hai visti tutti. Non sa disegnare”. Io rimasi scioccato. Gli dissi: “Ma come, Franco?! Uno come te che ha fatto avanguardia!”. Ma lui voleva provocarmi, come sempre. Diceva che i volti devono essere armoniosi, perfetti. Io invece li sconvolgo, li destrutturo. Litigavamo sempre su questo.
di Federico Arduini
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- Tag: musica
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