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Jany McPherson live al Blue Note di Milano il 19 aprile: “Il pubblico non è stupido: quando sente qualcosa di autentico lo riconosce”

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Abbiamo fatto due chiacchiere con Jany McPherson qualche giorno prima del suo concerto al Blue Note di Milano, previsto per giovedì 19 aprile

Jany McPherson

Jany McPherson live al Blue Note di Milano il 19 aprile: “Il pubblico non è stupido: quando sente qualcosa di autentico lo riconosce”

Abbiamo fatto due chiacchiere con Jany McPherson qualche giorno prima del suo concerto al Blue Note di Milano, previsto per giovedì 19 aprile

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Jany McPherson live al Blue Note di Milano il 19 aprile: “Il pubblico non è stupido: quando sente qualcosa di autentico lo riconosce”

Abbiamo fatto due chiacchiere con Jany McPherson qualche giorno prima del suo concerto al Blue Note di Milano, previsto per giovedì 19 aprile

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Jany McPherson è una delle voci più interessanti del nuovo jazz internazionale. Il suo talento non è passato inosservato: a confermarlo, la prestigiosa collaborazione con John McLaughlin, che l’ha voluta con sé in tour e ha partecipato, in veste di special guest, al brano “Tú y yo” del suo nuovo album.

La sua musica è un incontro magnetico tra radici e innovazione: il ritmo pulsante della sua terra d’origine, l’intensità emotiva che attraversa le sue ballad, la complessità armonica delle sue composizioni e la freschezza del suo linguaggio improvvisativo rendono il suo stile immediatamente riconoscibile. Un’identità sonora autentica e in continua evoluzione.

Il 19 aprile sarà protagonista al Blue Note di Milano, dove presenterà “A Long Way”, il suo nuovo album di inediti: un viaggio musicale profondo, personale, e sorprendente. Un appuntamento imperdibile per chi ama il jazz che sa emozionare e rompere gli schemi.

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lei per sapere quali emozioni la portino sul palco del Blue Note, conoscere meglio il suo ultimo disco e la sua visione artistica

Come stai vivendo questi giorni che precedono la tua prima volta sul palco del Blue Note di Milano?

il concerto al Blue Note è per me davvero speciale! È la prima volta che suono in questo luogo mitico e sono molto felice. Qualche anno fa ci sono stata, ma come spettatrice: andai a vedere un concerto di Kurt Elling, un cantante che amo moltissimo e che seguo da tempo. Ricordo bene quella serata, ed è emozionante pensare che ora sarò io a salire su quel palco. Mi dà una grande gioia, davvero.

Arriverò al Blue Note in trio per presentare soprattutto il mio nuovo album, “A Long Way”, e condividerò il palco con due straordinari musicisti italiani: Luca Bulgarelli al contrabbasso e Amedeo Ariano alla batteria. Suoneremo principalmente i brani del nuovo disco, ma ci saranno anche alcune mie reinterpretazioni di grandi classici del songbook internazionale, e qualche estratto dal mio precedente album per solo piano.

Sono molto curiosa — e anche un po’ emozionata — di vedere come il pubblico accoglierà questi due concerti. In Italia vengo abbastanza spesso, perché da qualche anno lavoro con il mio produttore e manager italiano, Gianluca De Furia. È una persona con grande esperienza: è stato lo storico produttore di Sergio Cammariere e ha collaborato con molti altri grandi artisti. Oltre a produrre, è anche editore e gestisce la mia carriera, quindi ricevo molte proposte per suonare qui.

E devo dire che ne sono davvero felice: mi piace molto l’Italia e ogni volta tornare è un grande piacere

Ci racconti un po’ com’è nato “A Long Way”?

Diciamo che questo disco è nato dopo un periodo molto intenso a livello creativo. A dire la verità, sono rimasta un po’ sorpresa io per prima, perché non sono una che pubblica un disco ogni anno. Per me l’ispirazione ha i suoi tempi: a volte ho la sensazione che vada in vacanza!

Con “A Long Way”, però, c’è stato un momento in cui l’ispirazione è arrivata con forza: le melodie, le armonie… a volte anche piccoli frammenti di testo mi venivano incontro quasi spontaneamente. È stato un processo che si è costruito un po’ alla volta. In alcuni casi avevo già l’idea chiara per un brano e lo scrivevo tutto d’un fiato; poi lo portavo in studio con i musicisti con cui ho registrato il disco, facevamo delle prove e costruivamo insieme l’arrangiamento. Tutto questo è successo in un arco di circa 4-5 mesi prima di entrare in studio per la registrazione vera e propria.

Non ho un metodo preciso per scrivere: mi affido molto all’istinto. Quando arriva l’ispirazione, cerco di coglierla al volo. A volte sono al pianoforte, altre volte magari sono per strada e improvvisamente mi viene in mente una melodia o un’idea di testo. Allora prendo il registratore vocale e mi segno tutto subito, per non perderla. Poi, appena posso, torno a casa, mi siedo al piano e inizio a lavorare su quell’intuizione. A volte la lascio riposare qualche giorno e ci torno dopo con una prospettiva nuova… e così si aggiungono idee, dettagli, emozioni.

“A Long Way” è un disco che racconta il mio percorso, sia umano che artistico. Ogni brano racchiude una storia unica, una sfumatura diversa, e nessuno somiglia all’altro. Per me ogni brano è come una perla: preziosa, con una sua forma, una sua luce, una sua identità. E tutte insieme formano una collana, un insieme armonico e coerente.

So che forse non dovrei dirlo — non è mai facile per un’artista parlare della propria musica — ma sono davvero molto affezionata a questo disco. È la prima volta che mi capita di sentire un legame così forte con ogni singolo brano. Ognuno ha qualcosa di speciale, una sua personalità, e messi insieme creano qualcosa che per me è davvero meraviglioso.

In effetti ascoltandolo si sentono tanti mondi diversi, tante sfumature. Non a caso tu parti dal mondo della classica, ma poi hai spaziato e sperimentato tanto. In un’epoca di musica speso monocromatica…

Sono molto d’accordo con quello che dici, non sono un’artista che segue le mode del momento. Mi sento profondamente fedele all’ispirazione che ricevo. Quando nasce un brano, è come se avesse già in sé una sua forma, una sua anima: cerco solo di mettermi al servizio della musica, di ciò che sta cercando di emergere.

Spesso mi chiedono: “Ma tu sei una pianista jazz? Una pianista latin jazz?”. E io faccio fatica a classificarmi. Non riesco a dire: “Sì, sono una pianista jazz” oppure “Sì, faccio latin jazz”. Per me il jazz è già una parola enorme, che racchiude dentro di sé mille sfumature diverse. È vero, il jazz mi accompagna da quando ero molto piccola e, sì, sono cubana — queste sono le mie radici — ma nella mia musica non bisogna aspettarsi la salsa o la musica tradizionale cubana.

Le mie radici cubane sono lì, naturalmente, ma si sono intrecciate nel tempo con molte altre influenze: dal jazz alla musica brasiliana, dai ritmi dell’America Latina alla musica classica europea. Ho una formazione classica come pianista, e la musica classica è una delle influenze più forti del mio linguaggio musicale, cosa che si percepisce molto anche in questo disco.

Nella mia musica c’è una grande varietà di sfumature, e il jazz sicuramente colora molte di queste. Ma ciò che mi rende felice è proprio il non inseguire una moda: seguo piuttosto una visione artistica, un’esigenza interiore.

“A Long Way” è un disco che, secondo me, ha un’apertura profonda, piena di melodie che parlano direttamente al cuore. Come compositrice, attribuisco grande importanza alla melodia: credo che sia la melodia a creare la connessione emotiva tra la musica e chi ascolta.

Quello che spero — e che sento profondamente — è che questa musica sia senza tempo. Che possa essere ascoltata oggi o fra vent’anni, da un bambino o da un adulto, da qualcuno abituato ad ascoltare jazz o da chi non ha alcuna formazione musicale. Penso che chiunque, da qualsiasi orizzonte venga, possa sentirsi coinvolto, toccato, in connessione con questo suono.

Ecco, questo è ciò che desidero davvero: che questa musica possa attraversare i tempi, senza invecchiare mai. Almeno io la sento così.

Il tuo disco ha una forte componente melodica. Mi ha fatto riflettere molto, perché oggi mi sembra si sia un po’ persa la capacità di scrivere grandi melodie. Almeno, è una mia sensazione

No, no… non è una sensazione solo tua, anzi! Hai proprio colto nel segno. È una domanda che mi pongo spesso anch’io. Proprio stamattina, per esempio, riflettevo su questo tema: durante i miei concerti, come ti dicevo all’inizio della nostra chiacchierata, mi piace proporre delle riletture personali di grandi brani del songbook internazionale — standard scritti negli anni ’30, ’40, ’50. E mi domando: com’è possibile che queste canzoni siano riuscite a superare le barriere del tempo?

È incredibile che tu me lo chieda proprio oggi, perché me lo stavo domandando anch’io. Come mai oggi è così difficile trovare brani che ti colpiscano davvero, che ti restino in testa, che ti facciano vibrare dentro come facevano quelle melodie? Non so spiegarti esattamente perché succede. Forse viviamo in un’epoca in cui è più importante diventare famosi in fretta, raggiungere milioni di stream, guadagnare diritti d’autore nel minor tempo possibile. E allora, molti compositori finiscono per creare melodie semplici, immediate, magari superficiali, nel tentativo di raggiungere il pubblico più vasto possibile.

Ma io sono convinta che il pubblico non sia stupido. Magari a volte segue ciò che passa la radio o la televisione, ma se gli proponi qualcosa di autentico, di profondo, lo sente. Lo riconosce. Proprio come accadeva un tempo, con artisti che avevano il dono della melodia e della poesia.

Penso a Frank Sinatra, per esempio. Ma anche restando in Italia, a icone come Mina, Lucio Dalla, o Pino Daniele — che io amo tantissimo, davvero. La musica di Pino è per me una continua fonte d’ispirazione: è stato un autore straordinario, capace di creare melodie senza tempo, con un’identità forte, unica.

Oggi, quel senso della bella melodia, quella che ti rimane in testa, che ti emoziona, che ti fa cantare o piangere, si è un po’ perso. Ma per me resta fondamentale. Quando compongo, la melodia viene prima di tutto. La melodia e il testo. Non voglio scrivere qualcosa di banale, di vuoto, senza significato.

Come compositrice e autrice, sento di avere anche una responsabilità: quella di educare il pubblico, di offrirgli qualcosa che resti. Qualcosa che lo accompagni. Che possa, magari, diventare parte della sua vita. Questo è il mio obiettivo.

A volte alcuni artisti sembrano un po’ aver perso di vista questa responsabilità di cui parli nei confronti del pubblico

Ci sono persone, soprattutto in radio e in televisione, che hanno un potere enorme: possono davvero contribuire a educare il pubblico, anche quello più generalista. Se solo decidessero di trasmettere musica di alta qualità, con testi profondi, che fanno riflettere, che aiutano a diventare persone migliori, allora sì credo che qualcosa cambierebbe.

Perché la musica ha questo potere: può alleggerire la pesantezza del quotidiano, che per molti è difficile, faticoso, a volte persino doloroso. Immagina se nelle radio iniziasse a circolare un repertorio diverso, con un livello più alto dal punto di vista musicale e poetico… sono convinta che, nel giro di qualche anno, la società stessa migliorerebbe.

Purtroppo, spesso quello che si ascolta oggi è il contrario: testi volgari, melodie banali… e tutto questo non fa che abbassare la qualità dell’ascolto, e in un certo senso anche la qualità della vita. E la cosa triste è che chi ascolta quella musica tutti i giorni, magari non si rende nemmeno conto del danno che si sta facendo, dell’effetto che ha sull’energia, sul cuore, sull’anima.

Per questo, nella mia musica — soprattutto quando scrivo una canzone, con testo e melodia — cerco sempre di rimanere fedele all’ispirazione. Prendo molto sul serio ciò che mi arriva, come nel caso di A Long Way. E sai una cosa? Anche se sento che questi brani sono bellissimi, io non mi sento più la loro proprietaria.

Quando una persona del pubblico mi avvicina e mi dice: “Questa canzone mi ha fatto piangere”, o “Come hai fatto a scrivere una cosa così bella?”, io mi sento solo il canale. La trasmissione. Sono stata lo strumento per trasformare l’ispirazione in qualcosa di concreto, da condividere sul palco. Ma quella musica non mi appartiene più.

Ed è lì che succede la magia: quando una tua canzone smette di essere “tua” e diventa di chi l’ascolta. Quando qualcuno la sente così intensamente da farla sua. Ecco, io credo che non ci sia una gioia più grande per un compositore. È il dono più prezioso che la musica possa fare.

di Federico Arduini

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