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“La mente umana è sempre la stessa”: Dumbo Gets Mad oltre il vintage

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Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Luca Bergomi, mente dietro “Dumbo Gets Mad”, progetto di stampo psichedelico tutto italiano che ha conquistato l’estero

Dumbo Gets Mad

“La mente umana è sempre la stessa”: Dumbo Gets Mad oltre il vintage

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Luca Bergomi, mente dietro “Dumbo Gets Mad”, progetto di stampo psichedelico tutto italiano che ha conquistato l’estero

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“La mente umana è sempre la stessa”: Dumbo Gets Mad oltre il vintage

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Luca Bergomi, mente dietro “Dumbo Gets Mad”, progetto di stampo psichedelico tutto italiano che ha conquistato l’estero

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Quando si parla di musica contemporanea si sente spesso evocare un certo conformismo: una “patina” di suoni simili, attitudini condivise, un generale appiattimento creativo. Insomma, musica che, per parafrasare Battiato, tende a “buttar giù” invece di sollevare.

Eppure, esistono artisti che deviano con decisione dalla strada battuta dalla maggioranza, sia per propensione estetica sia per immaginario e capacità di costruire un proprio mondo sonoro.

Tra questi spicca “Dumbo Gets Mad”, progetto che, contrariamente a quanto molti potrebbero immaginare, è completamente italiano. A guidarlo è l’emiliano Luca Bergomi, cantautore, producer e sound designer che per anni ha vissuto a Los Angeles. Il nome d’arte nasce dalla celebre sequenza “Pink Elephants on Parade” del classico Disney Dumbo (1941): una scena visionaria e psichedelica che ben rispecchia il caleidoscopio di influenze che Bergomi porta con sé. Già dal primo ascolto dell’ultimo disco, “Five Eggs” (Carosello Records), emerge infatti una profonda commistione di suoni: funk e pop convivono, elettronica e una forte impronta psichedelica, frutto di una scelta precisa e consapevole, come ci ha raccontato lo stesso Bergomi: “Mi piace ancora registrare su nastro: non per nostalgia, ma perché mi piace davvero quella timbrica, quelle armoniche. L’esperienza in America, soprattutto a Los Angeles, mi ha segnato. Dal punto di vista artistico l’America per me rimane un terreno fertile. L’estetica deriva dai miei ascolti e dal mio amore per la psichedelia – quella americana degli anni ’60, la scena di Canterbury, il progressive – ma anche da elementi pop, disco, funk. Non sono una persona settoriale: mi piace spaziare e lasciarmi sorprendere”.

Non inganni la veste vintage: il risultato è un suono moderno, contemporaneo, che usa stilemi e linguaggi di un tempo per sintetizzare qualcosa di nuovo. Ne sono un esempio anche i testi che, contrariamente a quanto più affine ai generi da cui questo progetto prende ispirazione, raccontano di concreta vita quotidiana: “I testi e gli scenari nascono quasi sempre da riflessioni personali. Sono pensieri maturati nel tempo, che parlano dell’epoca in cui viviamo ma senza fermarsi alla tecnologia o al contesto. Credo che la mente umana sia sempre la stessa: i dilemmi della filosofia greca sono ancora i nostri. Io sono un amante del pensiero, del pormi domande. La scrittura diventa il modo per somatizzare queste riflessioni. Le risposte non ce le ha nessuno, ma mi piace fare domande. Poi se ognuno trova la propria risposta dentro la mia musica, tanto meglio” ci ha raccontato Luca. Nel corso di quasi 15 anni di carriera Dumbo ha calcato i palchi di oltre 100 festival internazionali.

Impossibile non chiedergli quali differenze tra quei palchi e i nostri: “Non so se dipenda da un maggiore interesse verso il progetto o da altro, ma all’estero – Francia, America in particolare – c’è un’attenzione diversa. Negli Stati Uniti il fulcro della serata è vedere una band suonare live. Qui a volte è più un contorno prima del DJ set. Lì c’è un vero interesse per gli strumenti, i suoni: “Che pedale usi?”, “Perché quell’eco sulla voce?”… Gente che magari suona o vuole condividere un percorso simile. Si crea una sorta di fratellanza. In Italia questa cosa la vedo meno, ma forse dipende anche dal fatto che all’estero ho più seguito”. Ieri sera, 4 dicembre, Dumbo si è esibito alla Santeria Toscana 31 di Milano, città dove adesso vive e che ha ispirato “Torre Velasca”, brano uscito proprio ieri sulle piattaforme, prima disponibile solo nella versione vinile del disco. Una fotografia di Milano senza filtri: “È legata al mio arrivo in città: la nebbia, l’incertezza, il trasferimento, gli amici. E poi una serie di vicende personali che hanno generato riflessioni e dialoghi indiretti con alcune persone. L’ho chiamata così perché la Torre Velasca è un simbolo della città: quando fu costruita era considerata una delle torri più brutte d’Europa, un manifesto del brutalismo. Poi è stata rivalutata. Quell’ambivalenza – brutto e bello insieme – per me rappresenta benissimo Milano: una città non piatta, piena di contrasti che convivono”.

di Federico Arduini

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