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Marco Ballestri racconta il genio di Wandrè all’Electric Sound Village

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Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Marco Ballestri sulle chitarre Wandrè e sulla sua partecipazione all'”Electric Sound Village”

Wandrè

Marco Ballestri racconta il genio di Wandrè all’Electric Sound Village

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Marco Ballestri sulle chitarre Wandrè e sulla sua partecipazione all'”Electric Sound Village”

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Marco Ballestri racconta il genio di Wandrè all’Electric Sound Village

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Marco Ballestri sulle chitarre Wandrè e sulla sua partecipazione all'”Electric Sound Village”

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Dal 26 al 28 settembre a Cremona, all’interno di Cremona Musica International Exhibitions and Festival, si terrà la seconda edizione dell’Electric Sound Village, lo spazio dedicato alla liuteria elettrica e alla storia della musica rock. Un appuntamento che rinnova il dialogo con un territorio la cui tradizione musicale e liutaria è conosciuta in tutto il mondo. Tra i protagonisti ci sarà Marco Ballestri, medico di professione ma da sempre appassionato di liuteria e strumenti a corda. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lui per conoscere meglio da dov’è nata questa passione e il suo legame con il leggendario liutaio italiano Antonio Wandrè.

Com’è nata la passione per la liuteria?

Per me la liuteria è sempre stata un hobby: di mestiere faccio il medico. Però coltivo questa passione da quando avevo 18 anni, forse anche prima. Verso la fine degli anni ’90, quasi per caso, scoprii una chitarra di Andrea che non conoscevo affatto. Ne rimasi folgorato: era un oggetto talmente particolare che iniziai a studiare la sua storia. Ho ricostruito vita e opere di Wandrè e da lì è cambiato il mio modo di concepire la liuteria. Come dicevi tu, c’è un confine molto labile tra artigianato e arte. Quando il liutaio, oltre alla funzione dello strumento, aggiunge anche uno stile creativo, allora lo strumento diventa qualcosa di più: non solo un oggetto funzionale, ma un’opera capace di emozionare. Questo è proprio ciò che Wandrè ha insegnato più di 60 anni fa, trasformando lo strumento da attrezzo di lavoro a vera e propria opera d’arte.

Quindi un modo completamente nuovo di concepire lo strumento musicale?

Esatto. L’intento di Wandrè era quasi filosofico: trasformare lo strumento in una protesi dell’artista, parte integrante della sua presenza scenica, capace di trasmettere emozioni ed energia. Lo faceva introducendo concetti come l’idea, il messaggio, l’ironia, la trasgressione.
Usava colori mai visti prima, materiali moderni come metalli e plastica, e forme solo apparentemente assurde ma ricche di simbolismi legati al contesto sociale, politico e personale. In questo modo lo strumento diventava un catalizzatore di emozioni e archetipi, sia per il pubblico sia per il musicista.

Mi viene in mente il concetto di irripetibilità, che è anche la magia della musica dal vivo. Quanto conta questa unicità negli strumenti di Wandrè?

È fondamentale. Nessuno strumento era uguale all’altro. Wandrè chiedeva agli operai: “impara la parte e mettici l’arte”. Partivano da un prototipo, ma poi ognuno aggiungeva la propria creatività. Era un po’ come la Factory di Andy Warhol, ma con intenti opposti: invece di serializzare l’arte, Wandrè voleva rendere unico un oggetto che teoricamente doveva essere di serie.
E poi nella sua fabbrica c’era un continuo via vai di musicisti e artisti che contribuivano spontaneamente: un ambiente vivo, irripetibile. Per questo ogni strumento è diverso: non esiste un esemplare identico all’altro, a parte poche eccezioni (per esempio quelli tinta unita o con piani armonici in formica).

Parliamo di suono: quanto è importante il lavoro artigianale sulla resa sonora?

Moltissimo. Anche i pickup venivano avvolti a mano, senza macchine di precisione: il numero di spire variava e quindi ogni pickup suona in modo diverso. Hanno tutti un’impedenza molto bassa, che offre un volume leggermente inferiore rispetto agli strumenti moderni ma con una gamma di frequenze molto più ampia. Questo li rende estremamente versatili. Con il mio gruppo dimostriamo proprio questa caratteristica: partiamo da musiche anni ’30 e arriviamo ai Pink Floyd o a Prince, passando per il rock più duro o il cantautorato. Sono strumenti che permettono di spaziare davvero ovunque.

Ci puoi fare un esempio concreto di innovazioni tecniche introdotte da Wandrè?

Un esempio straordinario è il ponte corde sospese: le corde non appoggiano su un ponte ma sono tenute sospese da un’asola. Questo riduce al minimo la dispersione di energia, garantendo un sustain incredibile. Ovviamente è una soluzione impraticabile per la produzione di serie: solo rifarlo oggi ci è costato 400 € di produzione, e non puoi pensare che una grande marca spenda tanto solo per il ponte.
Ma Andrea non pensava alla produzione industriale: lui voleva innovare, creare strumenti rivolti ai professionisti. E infatti i suoi modelli erano già allora strumenti costosi e sofisticati, non certo entry level

E oggi, che rapporto c’è tra i musicisti e questi strumenti?

Purtroppo negli anni ’60 il metodo costruttivo americano, più veloce ed economico, ha relegato Wandrè all’oblio. Oggi però diversi liutai stanno riscoprendo le sue idee. Alcuni ponti di Berg o Wilkinson derivano direttamente dalle intuizioni di Wandrè. Quando mettiamo questi strumenti in mano a musicisti professionisti rimangono sbalorditi. Steve Hackett, dopo averne provati alcuni, ci disse scherzando: “Io non ho mai preso droghe per suonare… ma secondo me chi ha creato questi strumenti chissà cosa aveva preso…”.

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