Scrivo contro il mal di vivere, parla Peppe Lanzetta
Peppe Lanzetta è un artista multiforme: attore, drammaturgo e scrittore. Il suo profilo abbraccia diverse sfaccettature esistenziali
Scrivo contro il mal di vivere, parla Peppe Lanzetta
Peppe Lanzetta è un artista multiforme: attore, drammaturgo e scrittore. Il suo profilo abbraccia diverse sfaccettature esistenziali
Scrivo contro il mal di vivere, parla Peppe Lanzetta
Peppe Lanzetta è un artista multiforme: attore, drammaturgo e scrittore. Il suo profilo abbraccia diverse sfaccettature esistenziali
Peppe Lanzetta è un artista multiforme: attore, drammaturgo e scrittore. Il suo profilo abbraccia diverse sfaccettature esistenziali
Peppe Lanzetta è un artista multiforme: attore, drammaturgo e scrittore. Il suo profilo abbraccia diverse sfaccettature esistenziali. La sua versione più autentica è forse quella di scrittore, come aveva sognato da giovane, quando «Goffredo Fofi disse che sarei potuto diventare un grande scrittore». Lanzetta proveniva dal teatro satirico, girando l’Italia con Paolo Rossi e Alessandro Bergonzoni. Si esibiva sui palchi delle feste dell’Unità, «ma in seguito la scrittura ha preso il sopravvento e fra il 1991 il 1996 ho scritto quattro libri, sbaragliando la critica letteraria e il mercato». I suoi volumi sono diventati di culto, poi col passare degli anni «lentamente ho diversificato la mia produzione» ricorda oggi. La scrittura era la sua dimensione «salvifica», «il mio antidoto per il male di vivere». Un malessere interiore che lo accompagna ancora: «È fondamentale per gli artisti immergersi nei propri demoni e tirare fuori qualcosa di autentico. Costa molto perché si soffre, ma questa è la differenza tra lo scrittore e chi semplicemente scrive». Il tormento è la chiave per aprire lo scrigno dei pensieri che restano immemori. «Attenzione però a non lasciarsi travolgere» ammonisce.
La sua ultima performance è la sua apoteosi artistica: il personaggio del vescovo Tesorone interpretato nel film “Parthenope” di Paolo Sorrentino, dopo i fasti di Cannes: «È stata la ciliegina sulla torta» racconta emozionato. Una simbiosi – quella con il regista premio Oscar – nata 22 anni fa, quando ottenne una piccola parte nel primo film di Sorrentino, “L’uomo in più”: «Credo che Paolo amasse la mia figura, appena si è presentata l’occasione mi ha chiamato e mi ha affidato un ruolo stupendo, il vescovo di Napoli, un personaggio complesso, pulp, graffiante, esagerato, debordante».
A Cannes Lanzetta ha incantato la critica francese e fatto incontri che non dimenticherà facilmente: «Con il premio Oscar Gary Oldman siamo diventati amici, Vincent Cassel mi ha chiesto il numero di telefono, ho abbracciato Sting: una serie di emozioni che bastano per tutta la vita». C’era ancora l’eco del male di vivere «e Paolo mi ha permesso di risalire dagli abissi e portarmi nel grande cinema. Sorrentino ha uno sguardo estetizzante, è un pittore impressionista, ti dà un affresco in mano». In comune con il regista napoletano ha la stessa visione epica della donna: «Ho una concezione idealizzata del mondo femminile, tutti i miei racconti parlano di donne e della loro aspirazione a scappare dall’inferno metropolitano, credo molto nella loro potenza rivoluzionaria. La ‘donna autentica’, come Rosa Luxemburg o Simone de Beauvoir, ha sempre mirato alla libertà piuttosto che ai posti di potere».
Di recente ha scritto il romanzo “Quentin Malinconia”. È la storia di una popstar mancata in cui mostra tutta la sua sfacciata e disinibita genuinità narrativa, i cui segni biografici nascono dal bisogno di raccontare «quelli che avevano le carte in regola per sfondare ma che per un dannato destino hanno perso il filo». Non è nuovo a immergersi negli interstizi di anime affannate. Prima delle fiction della “Napoli del sottosuolo”, Lanzetta ha iniziato dal 1991 a squarciare il volto oscuro della città: «Nel 2013 mi telefonò Bernardo Bertolucci, dopo aver visto il film “Take Five” di Guido Lombardi, e mi colmò della sua stima per la mia capacità di interpretare la napoletanità». Una napoletanità che un po’ gli va stretta, perché «dentro mi sento americano». Ha amato Scarpetta, Eduardo e Petito, ma non erano il suo mondo. Preferiva Viviani: «Però, come personaggi, ho sempre guardato agli americani. Infatti di recente ho dedicato uno spettacolo allo stand up comedian Lenny Bruce e al grande John Belushi».
Per compendiare la sua carriera, sogna un giorno di «raccontare la figura di un padre doloroso che possa mettere a disposizione dei giovani quello che ha capito. E cioè che il senso della vita non sta nel danaro e nell’arrivismo, ma in quello che lo ha fatto diventare uomo».
di Felice Massimo De Falco
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Tag: Cinema, intervista
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