app-menu Social mobile

Skip to main content
Scarica e leggi gratis su app

Jfk da Oscar, parla Pietro Scalia

In occasione del 60esimo anniversario dellassassinio di John Fitzgerald Kennedy, Scalia torna sul suo grande film di inchiesta e denuncia
|

Se è vero che un regista è il dio dei propri film, allora il montatore è colui che consente al divino di dialogare con i comuni mortali. Se poi il regista è Dio (Oliver Stone, onnipotente negli anni Ottanta e nei primi Novanta, lo è stato per davvero) al montatore è chiesto di diventare un suo pari. E così “JFK – Un caso ancora aperto” del 1991 è tanto di Oliver Stone – che lha scritto e diretto – quanto di Pietro Scalia e Joe Hutshing, premiati con lOscar per il miglior montaggio. In occasione del 60esimo anniversario dellassassinio di John Fitzgerald Kennedy, Scalia torna sul suo grande film di inchiesta e denuncia, racconto e montaggio.

«Anche prima della lavorazione, la nostra attività di ricerca e studio su libri, carte e materiale di repertorio fu intensissima» dice Scalia. Siciliano di casa a Los Angeles, fu chiamato – trentenne agli esordi – a mantenersi a galla in un mare agitato: «Il clima era paranoico, siamo stati accusati di avere manipolato la Storia». Accuse infondate? «È ovvio che il cinema comporti sempre una certa manipolazione, ma JFK” lascia allo spettatore la possibilità di trarre le proprie conclusioni» su una vicenda che è un pezzo noto e drammatico di Novecento. Illuminata da un’attenzione mediatica totale (il celebre filmato con cui Abraham Zapruder immortalò il corteo presidenziale «è un potente documento storico che lascia sbalorditi, divenne il nucleo del nostro film») eppure ricca di zone dombra: «Il regista puntò lattenzione sull’eventuale implicazione di Lyndon B. Johnson, allepoca vicepresidente, oltre al fatto che lassassino di Kennedy potesse non essere il solo Lee Oswald. Lazione in Dealey Plaza a Dallas fu di tipo militare, Stone la chiamava Triangulation of Fire”, triangolazione di fuoco».

Ben oltre le polemiche, «JFK – Un caso ancora aperto» (il sottotitolo italiano è didascalico ma dice il vero) non mostra rughe: «Regge bene. Anche nella lunghezza, superiore a tre ore. Fu un lavoro micidiale, partivamo da una sceneggiatura di 168 pagine. Una pellicola di media durata ne conta di solito poco più di cento. In genere, una per ogni minuto di film» ricorda Scalia. «Inoltre, le tecnologie a disposizione non erano certo quelle di oggi. Lavorarci fu bellissimo, ma un inferno. Ho sperato che non mi capitasse più una simile impresa». E invece dieci anni dopo JFK” arrivò “Black Hawk Down” di Ridley Scott: «È vero, però quando fatico tanto vinco lOscar» aggiunge ridendo. La sua seconda statuetta arrivò infatti proprio grazie al duro spaccato bellico di Scott. Il suo talento è immenso, ma le regole sono semplici: «Un montatore deve raccontare ed essere preciso, senza fingere. Il suo compito è condurre lo spettatore dentro il film. E collocare geograficamente i personaggi».

Così, oltre alla storia, Scalia conosce pure la geografia: «Mi è stato chiesto di lavorare anche a “Napoleon” (lultimo film di Ridley Scott in sala da domani, ndr.). Sono impaziente di vederlo. Dal trailer ho riconosciuto i luoghi dove girammo la scena iniziale de Il gladiatore”». Pietro Scalia è solito collaborare a grandi film di grandi registi. Divinità abituate a scatenare linferno.

di Federico Fumagalli

La Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!

LEGGI GRATIS La Ragione

GUARDA i nostri video

ASCOLTA i nostri podcast

REGISTRATI / ACCEDI