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Sento il peso di una tradizione, parla il poeta Salvatore Palomba

Le parole di Salvatore Palomba, l’ultimo poeta partenopeo: “Anche se la musica di oggi è diversa rispetto alle tradizioni melodiche, il dialetto si rinnova, ci riesce sempre”

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Nel 1588 il poeta Gioan Battista del Tufo descrisse così il popolo napoletano: «Ogni fanciul, pria che l’avolgi in fasce / quasi cantando nasce». Oggi questa descrizione resiste indomita anche nelle parole di Salvatore Palomba, l’ultimo poeta partenopeo: «Anche se la musica di oggi è diversa rispetto alle tradizioni melodiche, il dialetto si rinnova, ci riesce sempre. Insomma, il dialetto ‘c’azzecca’con la musica».

In oltre settant’anni di attività Palomba ha raccontato Napoli attraverso il dialetto e le sue evoluzioni, oltre il folklore e gli stereotipi. Insieme al professor Salvatore Iacolare dell’Università degli Studi di Udine è stato protagonista del ciclo di incontri “Dialetto e musica”, organizzato dalla Fondazione Campania dei Festival (in programma a Napoli fino al 27 maggio).

Dalle villanelle cinquecentesche al rap di Liberato e Geolier: un passaggio estremo solo all’apparenza ma che in realtà spiega perfettamente il fil rouge che lega da sempre la città partenopea alla musica. Nel dicembre dello scorso anno – in occasione del suo 90esimo compleanno – a Palomba è stata conferita la Medaglia della città di Napoli. Gli chiediamo se questo riconoscimento rappresenti per lui più un motivo di orgoglio o una responsabilità: «Prima di tutto un’esagerazione. Non mi ritengo l’ultimo poeta di Napoli: sarebbe bruttissimo per la poesia di questa città, che spero abbia invece lunga vita. Forse storicamente sono l’ultimo di una tradizione antica. Questo lo posso accettare e questa sì che è una responsabilità».

La chiave di lettura è nella parola “contaminazione”: prima vista come un nemico poi, a partire dalla Seconda guerra mondiale, come un’opportunità portata con entusiasmo dai soldati americani arrivati a liberare la città dalla guerra. Sono gli anni Cinquanta di successi come “Anema e core,“Luna rossa” ma anche di “Io, mammeta e tu” di Modugno. Poi, l’apice negli anni Sessanta con artisti come Renato Carosone e Pino Daniele, quest’ultimo vero re delle contaminazioni sonore e lessicali (basti pensare a “Yes I Know My Way” o “I Say i’ sto ccà”).

Spiega Palomba: «Per me che ho avuto la vocazione della scrittura dall’età di 7 anni, la musica e Napoli sono stati i cardini della mia vita. Penso che ci sia qualcosa di misterioso in tutti questi corsi e ricorsi storici». L’autore di classici come “Carmela” e “Amaro è ’o bene” non guarda con sospetto al presente, anche se ammette con ironia: «Tengo 90 anni e le canzoni non le ascolto quasi più». E conclude: «Trovo però che anche in questi nuovi progetti ci sia un pizzico di sincerità rispetto ai costrutti delle produzioni italiane e questo anche attraverso l’utilizzo della lingua madre».

di Raffaela Mercurio

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