Simona Salis racconta “S’anima”: “Le radici vanno custodite, ma anche fatte crescere”
Da venerdì scorso è disponibile “S’anima”, il nuovo album della cantautrice sarda Simona Salis. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lei

Simona Salis racconta “S’anima”: “Le radici vanno custodite, ma anche fatte crescere”
Da venerdì scorso è disponibile “S’anima”, il nuovo album della cantautrice sarda Simona Salis. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lei
Simona Salis racconta “S’anima”: “Le radici vanno custodite, ma anche fatte crescere”
Da venerdì scorso è disponibile “S’anima”, il nuovo album della cantautrice sarda Simona Salis. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lei
Da venerdì scorso è disponibile “S’anima”, il nuovo album della cantautrice sarda Simona Salis. Un lavoro intenso e intimo, cantato tra il sardo campidanese e l’italiano, che attraversa le molte sfaccettature dell’anima con sonorità che uniscono tradizione e contemporaneità. Di fatto, un disco di world music che scava nel profondo: parla di anime gemelle, di amore incondizionato per un figlio, di senso di colpa, di empatia e di quei legami invisibili che stringiamo con noi stessi e con chi è venuto prima di noi.
Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Simona per farci raccontare com’è nato questo viaggio e cosa ha significato per lei.

Simona, da dove nasce S’anima?
Tutto è cominciato da una poesia di Mariangela Gualtieri, “Sono stata una ragazza nel roseto“. Da lì è nato il primo brano, che poi ha aperto la strada a tutto l’album. Quella poesia mi ha spinta a riflettere sull’anima, sulle sue tante forme e ho iniziato a farmi delle domande.
Mi interrogavo, ad esempio, sulla reincarnazione, in cui ho sempre creduto. Ma poi, leggendo quella poesia, mi ha colpito una frase: “Sono stata tutte queste cose, ma alla fine, di cosa devo avere paura?”. Mi sono resa conto che vivo questa vita come se fosse unica. La rispetto profondamente. Non penso a una seconda occasione, a un’altra esistenza in cui poter rimediare o finire qualcosa.
Eppure, mi restavano delle domande: perché mi sento così antica? Da dove vengono certi doni, certe intuizioni che ho da sempre, come se fossero arrivate da lontano?
Così ho cominciato a pensare al DNA, al modo in cui porta con sé storie, esperienze, memorie. Forse il dialogo tra anima e corpo avviene proprio qui, in questa vita. Forse ciò che sento addosso non è altro che l’eredità delle mie antenate, la loro voce che ancora parla attraverso di me.
Nel brano canto immagini di donne: sono stata strega e sono stata bruciata. Sono stata profuga dalla pelle scura, che attraversa il mare senza paura. Sono stata vita violata, abbandonata. Sono stata amata, potente, ricca. Forse le mie ave hanno vissuto tutto questo. E ora, tutto questo vive in me.
Il disco è cantato in una lingua fortemente identitaria, il sardo campidanese. Che significato ha per te questa scelta?
Certo, il disco è miscelato tra sardo e italiano. So che non tutti comprendono il sardo e proprio per questo credo che la lingua trasmetta su altri livelli. È come se parlasse direttamente all’anima, anche quando le parole non vengono capite nel senso stretto. Il sardo, come tante lingue antiche, ha dentro di sé qualcosa di profondamente ancestrale. Porta con sé memorie, sensazioni, verità che superano la logica e arrivano altrove, più in profondità.
Per me è fondamentale cantare in sardo. Lo sento come un dovere, oltre che un atto d’amore. Se non lo facciamo noi, se non lo fanno gli artisti, chi può farlo? Altrimenti il rischio è che questa lingua finisca nell’oblio, dimenticata. Cantare in sardo è un modo per tenerla viva, per renderla ancora necessaria, presente. E credo che questa responsabilità, quella di preservare, tramandare, rivitalizzare, faccia parte del nostro mestiere di artisti.
La tradizione è centrale nel tuo lavoro, ma non sembri volerci restare intrappolata. Come vivi questo equilibrio tra radici e contemporaneità?
È fondamentale non rimanere inchiodati al passato. Le radici vanno custodite, sì, ma poi bisogna farle crescere. Io la vedo un po’ come un albero: forte, radicato nella terra, ma con una chioma aperta, fiorente, che si allunga verso il cielo, verso il futuro, verso l’altro.
Credo che la sfida sia proprio questa: mantenere la radice viva, profonda, ma lasciare che la pianta cresca, esplori, si rinnovi. In questo disco, ad esempio, canto in diverse lingue. È anche un modo per raccontare il mio percorso personale: dalla Sardegna, dove ho le mie radici, sono andata altrove, ho vissuto in contatto con culture diverse, persone diverse.
Ho provato a vivere in Inghilterra, ho girato varie città italiane… E ogni incontro, ogni esperienza, ha lasciato qualcosa dentro di me. Questa ricerca non deve mai fermarsi. È parte della nostra crescita. È giusto e necessario andare ad esplorare, mettersi in gioco, aprirsi al mondo. Solo così possiamo davvero evolverci, anche artisticamente.

Come nasce il suono di S’anima?
Premetto che ascolto di tutto: dal metal alla musica classica. Amo la musica in ogni sua forma, e a seconda del momento che vivo, cambio disco, cambio atmosfera. Non ho confini rigidi, vado dove mi portano le emozioni. Detto questo, gran parte del merito per la produzione e gli arrangiamenti dei miei brani va a Ivan Ciccarelli, che oltre ad essere il produttore è anche mio marito. Il nostro processo creativo è molto naturale: io parto da una base semplice, chitarra e voce. Quella è la fase embrionale. Poi il brano passa nelle sue mani… e lì inizia la trasformazione.
Ivan è un batterista e percussionista di grande esperienza, ha collaborato con artisti come Jovanotti, Ramazzotti, Nannini, Oxa, Rossana Casale, Teresa De Sio, Antonella Ruggiero. Ma al di là dei nomi, la cosa che lo rende speciale è la sua passione sconfinata per la musica. Negli anni ha raccolto strumenti e percussioni da tutto il mondo, ed è proprio attraverso questi suoni che nei miei dischi si “sfoga” colorando ogni brano con un’impronta unica e riconoscibile.
Poi c’è Silvio Masanotti alla chitarra, anche lui con un gusto musicale molto raffinato, amante di strumenti particolari che non si trovano certo nella musica pop più commerciale. E quest’anno si è aggiunta anche mia figlia Lara al basso. Insomma, è stata davvero una produzione in famiglia, un po’ come un pranzo della domenica: ognuno porta qualcosa e alla fine viene fuori un piatto ricco, saporito, autentico.
Il mondo sonoro è quindi in gran parte merito loro. Ma ciò che mi rende felice è che riescono sempre a tradurre le mie idee musicali in qualcosa che mi rappresenta pienamente.
Proprio nel brano “Sono stata” c’è una collaborazione importante: quella con Antonella Ruggiero. Come è nata?
Antonella è un’artista che stimo profondamente, non solo per la sua voce straordinaria e la sua carriera, ma anche per la persona che è. La conosco da oltre vent’anni, anche grazie a Ivan, che collabora con lei da moltissimo tempo. È sempre stata vicina al mio percorso, ha sostenuto i miei dischi, e più volte ho avuto l’onore di aprire i suoi concerti. A settembre avevo tra le mani “Sono stata” e sentivo che quel brano aveva bisogno di una voce femminile importante, di uno spirito affine. Così ho pensato a lei. Gliel’ho mandato senza grandi aspettative, anche perché Antonella non è un’artista che fa spesso duetti o collaborazioni. Lei ha un suo cammino, molto spirituale, molto personale.
E invece mi ha risposto con grande entusiasmo: “Guarda Simona, il brano è bellissimo, lo sento vicino. Lo canto volentieri.” Gioia è dir poco. Sentirsi dire questo da un’artista del suo calibro è stato un regalo enorme.

Insegni anche canto, quindi sei a contatto diretto con molti giovani. Che idea ti sei fatta delle nuove generazioni?
Penso che non si possa fare un discorso generazionale rigido, non sono d’accordo con chi generalizza. È vero, ci sono ragazzi che sembrano inseguire solo la fama immediata, magari senza una reale consapevolezza del talento o del lavoro che ci sta dietro. Alcuni credono che basti una canzone virale per diventare qualcuno, ed è un’illusione piuttosto pericolosa. Ma non sono tutti così.
Io insegno canto, ho circa 35 allievi a settimana. Quindi li conosco bene, ci parlo, li osservo da vicino. E ti posso dire che ci sono tantissimi giovani profondi, intelligenti, desiderosi di capire, di crescere. Bisogna solo guidarli, indirizzarli, offrire loro gli strumenti giusti.
Capita spesso che qualcuno arrivi qui con l’idea di voler fare subito il “pezzo trap”, magari convinto che bastino due mesi per sfondare. Ma poi, frequentando le lezioni, iniziano ad aprirsi: scoprono i Beatles, scoprono cos’è l’armonia, cosa significa scrivere una melodia, costruire un brano. E spesso si appassionano.
Il problema non è nei giovani, ma nella mancanza di orientamento e nella superficialità del modello che gli viene proposto. Sta anche a noi accompagnarli, dare loro radici e ali, come si suol dire. Perché hanno sete di bellezza. Solo che spesso non sanno dove trovarla.
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Tag: musica, Musica italiana
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