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Tredici Pietro: “Un album di contraddizioni. Sono una mosca bianca del rap”

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Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Tredici Pietro sul suo nuovo disco “Non guardare giù”, in uscita venerdì 4 aprile

Tredici Pietro

Tredici Pietro: “Un album di contraddizioni. Sono una mosca bianca del rap”

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Tredici Pietro sul suo nuovo disco “Non guardare giù”, in uscita venerdì 4 aprile

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Tredici Pietro: “Un album di contraddizioni. Sono una mosca bianca del rap”

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Tredici Pietro sul suo nuovo disco “Non guardare giù”, in uscita venerdì 4 aprile

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In un panorama rap spesso raccontato come ormai omologato, c’è chi cerca di uscire dalle strade già battute. Tredici Pietro, classe ’97, figlio d’arte (all’anagrafe Pietro Morandi, sì, quel Morandi), pubblica venerdì il suo nuovo album, “Non guardare giù”. Un disco frutto di una lunga lavorazione in un’epoca in cui la prassi è sfornare musica il più velocemente possibile, e che raccoglie consapevolmente tutte le contraddizioni di Pietro e della sua generazione: “Sono qui a inseguire un sogno di cui parlo male”, racconta con franchezza. “Viviamo in un mondo che è una gara continua: la performance, la perfezione, la riuscita a tutti i costi. Soprattutto la vittoria e la sconfitta. Non che prima non esistessero, ma oggi queste categorie si sono consolidate più che mai”.

Simbolo di questa attitudine, sotto molti aspetti, è la città di Milano: “Io sono di Bologna ed è facile vedere la differenza. A Bologna c’è un pensiero comune, un atteggiamento collettivo. Milano, invece, è il modello del successo: il milanese ben riuscito, super funzionante. Casa mia, adesso, è un cartellone pubblicitario: vivo sui Navigli. Quando sono arrivato qui, facevo un certo tipo di rap. Poi mi sono trovato immerso in un ambiente completamente diverso. Milano è il riflesso di un sistema pieno di falle. E qui, queste falle si vedono tutte. Il divario sociale è evidente: è segnato dal denaro, dalle opportunità che la città offre… ma solo a chi può permettersele. Il resto della gente vive fuori e viene a faticare in città.
Non è che Milano non mi sia piaciuta. Non mi è piaciuto quello che sono diventato qui. Senza accorgermene, mi sono fatto portatore di valori e simboli che non mi appartengono, che non approvo fino in fondo. Non sono il portavoce di quei valori, ma li ho sentiti addosso. Mi sono sentito più piccolo, in difetto rispetto al mito di Milano. Come se, per un attimo, avessi perso la mia identità. Mi ha fatto sentire sbagliato”.

Perché “Non guardare giù”?

“Io dico sempre che non vorrei spiegare troppo. Vorrei lasciare libera interpretazione a chi ascolta il disco, senza chiudere subito il significato con una spiegazione.
Viviamo guardando giù costantemente. Lo facciamo fisicamente, per riflesso, perché siamo piegati sugli schermi, sugli smartphone. E, secondo gli studiosi di anatomia, col tempo ci verrà persino la gobba.
È questo, ma è anche un invito e una constatazione. Se lo intendi metaforicamente, per me vuol dire non fermarsi a dare troppo senso alle cose. Spesso è proprio il bisogno di senso che ci blocca, che ci impedisce di agire. Vuol dire anche: non bloccarti. Non fermarti. Perché se guardi troppo a fondo questo mondo, vedi solo merda. Anzi, basta uscire un po’ dal nostro “giardinetto” – dall’Europa, dal comfort – per rendersene conto”.

Un disco suonato, un’identità costruita

L’album è un viaggio di 13 tracce che attraversano diversi mondi sonori, fino a compenetrarsi a tal punto da contaminare la radice rap e, in parte, distanziarsene. Un disco suonato, praticamente nella sua totalità, da strumenti veri: “Mi trovo bene a suonare con una band, mi sento meno rapper in questo”. Ma anche un album che gli ha permesso di rafforzare la sua identità: “Il motivo per cui sono andato virale? Il figlio di Morandi fa rap. Ho vissuto con la sindrome dell’impostore per tantissimo tempo. Sentivo di essere un impostore, qualcuno che toglie spazio agli altri. Ora è diverso. Ho fallito, alcune cose non sono andate bene. Eppure, qualcuno continua ad ascoltarmi. E questo disco mi rende orgoglioso: è consacratorio”.

E a chi gli chiedeva del rapporto con il padre, Pietro ha risposto: “È come se parlassero due mondi diversi, senza riuscire davvero a incontrarsi. Ci sono delle frizioni interne… Abbiamo litigato, come padre e figlio, ma non c’è una frattura vera e propria. Semplicemente, siamo due mondi che faticano a comunicare, anche se abbiamo dei punti in comune“. Non è stato sempre semplice crescere nell’ombra di un padre tanto grande, sentirsi sempre chiedere di lui: “Penso sia il mio contrappasso, una delusione costante. Ma è qualcosa attraverso cui devo passare. Ci sono momenti in cui questo mi pesa e altri in cui capisco che va semplicemente accettato. Una cosa che ho sempre cercato di fare è imporre la mia musica, il mio percorso. Io non c’entro, io faccio il mio. Non sfrutto e cerco di non farmi definire da questo. Sono diventato famoso come “figlio di”, e mi dispiace. Volevo uscire con la mia voce, con la mia musica“.

Tra gli argomenti trattati nel disco c’è anche la salute mentale: “È un bel periodo per parlare di salute mentale, una cosa che è sempre stata lì ma non è mai stata davvero affrontata. È come una porta chiusa, specialmente tra maschi. È ancora un grande tabù. Non ci parliamo, non ci apriamo, non comunichiamo. Io lo faccio molto meglio attraverso la musica. La musica è proprio il mio modo di esprimermi”.

Sul rap e il suo ruolo Pietro non ha dubbi: “Il rap racconta la realtà in cui viviamo. L’arte non è educativa, è educata: è figlia della situazione in cui si trova. Se non andiamo a “uccidere” metaforicamente una certa mentalità, non cambierà nulla. Dovremo passare attraverso questo per vedere la musica trasformarsi”. Ad ascoltarlo è oggettivamente qualcosa di diverso e Pietro ne è consapevole: “Sono anomalo, la mosca bianca del rap, perché cerco di non accettare lo status quo”.

E Sanremo?: “Se c’è un pezzo che sento giusto, ci provo, oggi più che mai mi sento pronto. Ma non basta più solo il progetto… Deve esserci un pezzo che mi appartiene davvero“.

di Federico Arduini

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