Universal Music Italia, tra nuovi studi e futuro. Mattioni: “Un ritorno alle origini”
Abbiamo visitato i nuovi studi di registrazione di Universal Music Italia e scambiato quattro chiacchiere con Luca Mattioni, produttore, arrangiatore e musicista responsabile degli studi

Universal Music Italia, tra nuovi studi e futuro. Mattioni: “Un ritorno alle origini”
Abbiamo visitato i nuovi studi di registrazione di Universal Music Italia e scambiato quattro chiacchiere con Luca Mattioni, produttore, arrangiatore e musicista responsabile degli studi
Universal Music Italia, tra nuovi studi e futuro. Mattioni: “Un ritorno alle origini”
Abbiamo visitato i nuovi studi di registrazione di Universal Music Italia e scambiato quattro chiacchiere con Luca Mattioni, produttore, arrangiatore e musicista responsabile degli studi
Abbiamo spesso scritto di quanto negli ultimi decenni la musica sia cambiata sotto ogni aspetto e di come, tra gli ambiti più toccati, vi sia stato anche quello della produzione, con l’avvento dell’home studio recording. Eppure le potenzialità e il valore che può portare un lavoro in studio non può essere equiparabile ai risultati ottenuti in una sessione ‘casalinga’. Lo sa bene Universal Music Italia, che ha da poco inaugurato i propri nuovi studi di registrazione nella sua sede milanese. Ci abbiamo fatto un salto.

Luca Mattioni, noto produttore, arrangiatore e musicista è il responsabile dei Recording Studios Universal Music, mentre Giuseppe Salvadori è il resident sound engineer; hanno collaborato con Gigi Cifarelli, Alex Baroni, Emma, Elodie Valerio Scanu, Loredana Bertè, Thirty Seconds to Mars, Ermal Meta, Marianne Mirage, Francesco Guccini, Mauro Pagani, Mondo Marcio, Paolo Meneguzzi Gemelli DiVersi, Renato Zero, Michele Zarrillo, Two Lines, Go west, Jasmine, Cristina D’Avena, Afterhours, Baustelle; Irene Grandi, Eugenio Finardi, Ivano Fossati, Massimo Ranieri, Le Vibrazioni, Vinicio Capossela, Adriano Celentano, Morgan, Elisa, Edoardo Bennato, Max Pezzali, Laura Pausini, Nek, Il Teatro degli Orrori, Muse, Alicia Keys, Lady Gaga.
Dimenticate l’immagine classica e un po’ cupa di questo genere di luoghi: lo spazio è immerso nella luce naturale e comprende una writing room, una production room con vocal booth, una control room di 37 mq e una live room di 75 mq completamente interconnessa a tutte le sale di regia. Gli studi saranno aperti anche a creativi, producer e musicisti ‘esterni’, dunque non soltanto agli artisti della casa madre. È la prima volta che ciò accade nel nostro Paese, per favorire collaborazioni, contaminazioni e nuovi progetti.
Un occhio al futuro, insomma, ma con radici ben piantate nel passato, come ci ha raccontato Luca Mattioni: «Nonostante ci troviamo in un ambiente dall’aspetto futuristico, questo rappresenta in realtà un ritorno alle origini. In passato molte etichette discografiche aprirono le porte dei propri studi di registrazione anche agli esterni. Basti pensare alla Island Records: fondata nel 1959 a Kingston, in Giamaica, si trasferì tre anni dopo a Londra, negli storici studi di Basing Street. Lì vennero realizzati album iconici per gli artisti dell’etichetta (basti citare il lancio internazionale di Bob Marley negli anni Settanta) e allo stesso tempo quegli spazi furono messi a disposizione di altri grandi nomi della musica mondiale come Genesis, Led Zeppelin e Rolling Stones». È una scommessa in un’ottica di diversificazione e ricerca di nuovi talenti: «Forse è davvero arrivato il momento di tornare ad aiutare artisti e gruppi che vogliono esprimersi in maniera più compiuta» riflette Mattioni. «Incentivarli cioè a cercare una propria strada, piuttosto che inseguirne una già tracciata. La nascita di questi studi e la scelta di Universal Music Italia di prendere due figure come la mia e quella di Giuseppe Salvadori (resident sound engineer, ndr.) va in questa direzione».

La visita agli studi è stata anche un’occasione per discutere della musica di oggi, di come viene raccontata e dell’utopica idea che chiunque possa autoprodursi in casa con risultati professionali. Ma le cose stanno diversamente, come conferma un esempio illustre che ci fa lo stesso Mattioni: «Ci è stata raccontata la storia secondo cui un fenomeno mondiale come Billie Eilish avrebbe realizzato il suo primo disco nella sua cameretta di adolescente. Eppure so per certo che quell’album è costato qualche centinaio di migliaia di dollari. Al netto della bravura di Eilish e del fratello, va detto questo: avranno sì scritto i pezzi e realizzato le relative pre-produzioni, ma il fonico che ha mixato quel disco è sicuramente un professionista pagato almeno 10mila dollari a brano. Non a caso quando parte la musica si ascoltano effetti che in una ‘cameretta’ non potrebbero mai essere realizzati».
La velocità di produzione ha stravolto tutto: oggi la tendenza è avere in due giorni un pezzo pronto. Ma quando si va così veloce, è inevitabile che la qualità crolli. Se a questo si aggiunge che manca spesso una formazione di fondo, il quadro non è dei migliori: “Negli studi spesso non ci sono più musicisti. Prendono delle cose già fatte, magari non sanno nemmeno in che tonalità sta lavorando. È surreale, ma succede davvero. Quando devono accordare l’autotune, vanno su un sito, caricano la base, e c’è un plugin che dice loro: “Guarda che sei in La minore”. C’è stata una proliferazione di queste figure: alcuni sono in gamba, perché hanno gusto, ok. Ma molti non sono musicisti. Qui si apre anche un discorso sociologico e culturale: il ragazzo di oggi è figlio dei tutorial. Impara tutto su YouTube. Ma noi, a suo tempo, senza YouTube, dovevamo arrangiarci. Dovevi capire come funzionava davvero una cosa, provare, sbagliare, rifare. Bisognerebbe insegnare che non c’è solo quel tipo di approccio lì. Quella roba può funzionare per un anno, due, finché hai il tuo “computerino””.

Mattioni guarda al passato: «Negli anni Ottanta la top 10 mondiale rifletteva una straordinaria varietà musicale, dai Duran Duran ai Cure, dai Dire Straits a Madonna, passando per Michael Jackson, Bruce Springsteen et cetera. La musica mainstream abbracciava almeno otto generi diversi, dimostrando che poteva parlare a pubblici diversi. Oggi assistiamo a un progressivo appiattimento, un’omologazione che penalizza la creatività e restringe l’offerta. È un imbuto in cui passa soltanto ciò che risponde a logiche ripetitive, sia nella forma che nella sostanza. Credo sia arrivato il momento di invertire la rotta: serve uno sforzo condiviso per ampliare la proposta musicale. Certo, è giusto tenere d’occhio il mercato e ciò che funziona sul momento, ma è altrettanto necessario prendersi la responsabilità di proporre anche qualcosa di diverso e meno prevedibile. Solo così si potrà tornare a offrire una musica ricca, varia e significativa».
Ed è ancora più importante perché qualcosa, tra il pubblico, sembra star cambiando: “I numeri non sono più quelli di prima. La gente comincia a stancarsi. Io, quando vado ai concerti dove suonano davvero, vedo i venticinquenni lì, sotto il palco. Quelli vogliono ascoltare musica suonata, viva, vera. La fame c’è. Sta solo aspettando qualcuno che le dia da mangiare” sottolinea Mattioni.

La musica, come il mondo, è sempre stata in movimento, anche e soprattutto per via dei grandi cambiamenti apportati dalla tecnologia. Mattioni lo sa bene e sa anche il ruolo fondamentale che le tecnologie hanno sempre rivestito nel mondo della musica: “Io sono convinto che il tipo di sonorità che caratterizza le diverse decadi dipenda in gran parte anche dalle tecnologie disponibili in quel periodo. È fondamentale capirlo”. Un esempio per chiarire meglio questo aspetto arriva da uno dei luoghi simbolo di musica di qualità: “Prendiamo il sound della Motown, per esempio: quel suono che conosciamo tutti non è che se lo siano inventati a tavolino. A Detroit c’era la Motown, con uno studio — la Studio A, chiamata anche “The Snakepit” — che era sempre attivo. Avevano una struttura pazzesca, e chiunque passasse di lì — Otis Redding, Stevie Wonder, Marvin Gaye, tutti — ci registrava. Non c’era tempo per stare a fare grandi scelte. Lo studio lavorava 24 ore su 24, 7 giorni su 7. I microfoni erano sempre gli stessi. La batteria era quella, la cassa era quella. Il banco era quello, e mixavi con quello. Non è che ci si mettesse lì a sperimentare ogni volta: il suono veniva anche dalla praticità, dalla routine, dai limiti tecnici. Stevie Wonder ha cantato sempre con lo stesso microfono, suonato la stessa tastiera, registrato nello stesso modo. E quel sound lì è diventato una firma. È anche per questo che ogni epoca ha il suo timbro, la sua impronta: perché gli strumenti, le macchine, le condizioni tecniche erano quelle, ed era dentro quei limiti che nasceva la creatività vera”.
A proposito di cambiamenti e novità, impossibile non parlare del Dolby Atmos, una rivoluzionaria tecnologia audio surround che crea un suono tridimensionale e immersivo, a cui Universal Music Italia ha dedicato parte delle funzionalità dello studio A, una sala Dolby Atmos per la creazione dei nuovi master a suoni immersivi: «Nel corso del tempo i video sono passati dal bianco e nero alla risoluzione in 8 K, mentre l’audio è rimasto sostanzialmente sempre quello: suddiviso fra il canale sinistro e quello destro. Ecco, questa tecnologia potrebbe rappresentare finalmente una svolta epocale per cui inizieremo ad ascoltare diversamente la musica». Il ritorno della dinamica, un ascolto da pelle d’oca percepibile anche nelle cuffie, che segna una differenza abissale con il tradizionale stereo. Una volta provato, difficile tornare indietro.
di Federico Arduini
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- Tag: musica
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