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Il rock di padre in figli*

Intervista a Massimo Cotto, una delle firme più note del panorama dell’informazione musicale del nostro Paese e voce della mattina di Virgin Radio
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Giornalista, disc jockey e speaker radiofonico, Massimo Cotto è indubbiamente una delle firme più note nel panorama dell’informazione musicale del nostro Paese. Voce della mattina di Virgin Radio, ha da poco pubblicato un libro dal taglio peculiare: “Il rock di padre in figli*”, edito da Gallucci. «L’idea di base era quella di provare a raccontare a mio figlio e a tutti gli adolescenti che cosa abbia rappresentato il rock, da un punto di vista sia sociale che individuale, per ognuno di noi» ci spiega. «Quando ero adolescente anche chi non amava il rock in qualche modo sapeva che cosa fosse. La mia fidanzata dell’epoca ascoltava soltanto i cantautori ma sapeva perfettamente chi fossero Janis Joplin, Jimi Hendrix e i Led Zeppelin. Oggi è tutto diverso. Fino a pochi anni fa sarebbe stato sostanzialmente inutile raccontare che cos’era il rock, perché tutti lo sapevano. Adesso secondo me è diventato necessario».
Abbiamo già scritto quanto negli ultimi anni la musica rock abbia effettivamente perso parte della sua alchemica presa sui giovani, che nel frattempo hanno trovato in altre forme espressive ciò che un tempo trovavano nelle chitarre distorte. Ma accusarli di non apprezzare, quando invece spesso semplicemente non conoscono, è sbagliato: «Il libro non è un tentativo di far cambiare gusto agli adolescenti, perché è giusto che ciascuno di loro ascolti ciò che vuole. L’idea però è dire loro cos’è il rock perché possano scegliere, raccontandone alcuni elementi fondamentali: la ribellione, il senso di libertà, la voglia di contenuto. Tutte cose che non volevo andassero perdute “come lacrime nella pioggia”, per dirla alla Blade Runner» sottolinea Cotto. Una raccolta di storie diverse, raccontata senza un taglio cronologico ma per il puro gusto di farlo insieme a riflessioni e ricordi, mentre scorrono i nomi che hanno reso grande il rock, fra le leggende di un mondo profondamente diverso da quello odierno. A esser cambiato è anche l’universo stesso della musica, della discografia: «Hanno smesso un po’ tutti di ragionare in termini di carriera, per farlo in termini di singolo brano. Questa è una profonda differenza rispetto al passato. Pensa che “Stairway to Heaven” non è mai stata pubblicata su 45 giri. Tutti volevano raccontare un mondo attraverso l’album». Un discorso che tocca l’arte in generale: «Credo che a quella di oggi manchi la sacralità che permette a un mito di generarsi. Non è soltanto un problema del rock: anche nell’arte pittorica non ci sono più un Van Gogh o un Gauguin. Nel jazz non ci sono più un Thelonious Monk o un Miles Davis» osserva Cotto. «Curiosamente, l’unico luogo dove ancora esiste questa forza mitopoietica forte, questo elemento del mito e della leggenda, è lo sport». E fra un aneddoto e un consiglio per chi si approccia al rock («Ascoltare senza necessariamente voler capire, ascoltare insieme. Il rock era anche condivisione»), prima di salutarlo non possiamo non chiedergli quali siano stati gli artisti che più lo hanno colpito durante la sua lunga carriera: «Se arrivasse qualcuno a cancellare dalla memoria tutte le interviste che ho fatto, vorrei che le ultime due fossero quelle con David Bowie e con Leonard Cohen, che ho intervistato nove volte a testa. Erano due artisti straordinari, che ti incantavano. Anche quando parlavano avevano questa forza magnetica, ti perdevi. Con Cohen nella voce, con Bowie proprio fisicamente: era uno che muoveva l’aria solo entrando in una stanza».
Di Federico Arduini
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