La nostra vittoria è la vittoria del mondo
Seduta alla sua scrivania – la bandiera ucraina alle spalle, sul volto una luce al neon che conferisce all’ambiente un aspetto teatrale – Halyna Luhova (Head of City Council, il sindaco di Kherson) si racconta al videoreporter Francesco Maviglia, entrato in città con minore difficoltà rispetto all’inizio della guerra. Se un tempo i controlli sugli stranieri erano serrati e minuziosi, oggi l’ingresso è più agevole: è forte la sicurezza di un Paese che intravede, a tratti, la luce in fondo al tunnel.
Luhova respinge con garbo i ringraziamenti per il tempo che ci dedica. Vuole parlare subito di Kherson, la città più colpita in questa scellerata guerra. Ancora oggi, a due mesi dalla liberazione avvenuta in novembre, una pioggia di missili e bombe cade sui civili che ogni giorno lottano per la sopravvivenza e la libertà. «Sono proprio loro – inizia a raccontarci il sindaco – le persone coraggiose che riparano tutto, dai cavi elettrici alle forniture idriche. Adesso va meglio: il 90% della popolazione ha l’approvvigionamento idrico, il 70% il riscaldamento e l’80% l’elettricità. All’inizio, però, è stato semplicemente orribile». L’armata di Putin, intanto, resta approssimativa e brutale e finisce per colpire soprattutto i civili. «Donne, uomini, persone anziane che tentano di vendere prodotti al mercato per sfuggire alla povertà». L’obiettivo dell’invasore – spiega – resta quello di «costringere quelli che riescono a catturare a dichiararsi partigiani o a fare i nomi di chi conoscono: veterani di operazioni contro i russi o militari dell’esercito ucraino. Li obbligano a parlare per filmarli, torturandoli indipendentemente dalle risposte».
Per un italiano la parola “partigiani” ha un valore enorme. Le chiediamo cosa significhi esserlo oggi in terra ucraina: «Grazie a loro Kherson è sopravvissuta. Sono stati gli occhi e le orecchie dell’esercito, gli attivisti della striscia/nastro gialla. Veniva piazzata ovunque, sotto gli occhi dei russi, per dire: “Kherson è viva, Kherson è ucraina, noi crediamo nell’esercito ucraino”». Eroi silenziosi, come nel caso di una giovane donna, anche lei membro dell’amministrazione locale, «partigiana sin dal primo momento. Alla fine fu trovata e rapita dai russi proprio nel giorno in cui furono costretti a lasciare Kherson. Non ebbero il tempo di farle del male, è stata molto fortunata».
Gli occhi di Halyna Luhova sono tristi e stanchi, ma le parole ferme. È restia a parlare delle prossime mosse dell’esercito ucraino, non conferma le indiscrezioni sull’utilizzo di bombe al fosforo da parte di Mosca e non si sbottona sul grado di efficacia delle armi promesse dagli Stati Uniti. «Siamo grati agli Usa e a tutti i Paesi che aiutano la nostra nazione a sopravvivere. Che le eventuali, nuove armi in arrivo siano importanti dal punto di vista strategico spetta dirlo ai militari». Nel frattempo aggiunge: «Stiamo aspettando la liberazione della costa sinistra del fiume Dnper. Preghiamo ogni giorno affinché questo avvenga nel più breve tempo possibile. Sono convinta che entro l’anno l’intero territorio ucraino sarà liberato». Corpo e mente sono proiettati verso il futuro, su cosa fare una volta riottenuta la libertà: ricostruire scuole, ospedali, asili, infrastrutture e abitazioni, considerato che «oltre 800 case sono state distrutte dai bombardamenti». Colpisce in lei un particolare: le mani incrociate per tutto il tempo come in preghiera, con le unghie laccate di un rosso vivo, sfavillante. Un vezzo direbbe qualcuno, difficile da immaginare in una condizione del genere, ma che rappresenta bene la tempra di questo popolo e di una donna che non vuole rinunciare a essere sé stessa.
Prima di congedarci, mentre il telefono suona a ripetizione, ci tiene a ringraziare «ogni Paese, ogni organizzazione e persona che supporta la causa ucraina. Altre città sono ancora occupate, altre ancora verranno liberate, ma ci sono tante persone che hanno bisogno del vostro supporto. Quando vinceremo, perché vinceremo, questa guerra sarà la vittoria del mondo intero».
Di Raffaela Mercurio
Seduta alla sua scrivania – la bandiera ucraina alle spalle, sul volto una luce al neon che conferisce all’ambiente un aspetto teatrale – Halyna Luhova (Head of City Council, il sindaco di Kherson) si racconta al videoreporter Francesco Maviglia, entrato in città con minore difficoltà rispetto all’inizio della guerra. Se un tempo i controlli sugli stranieri erano serrati e minuziosi, oggi l’ingresso è più agevole: è forte la sicurezza di un Paese che intravede, a tratti, la luce in fondo al tunnel.
Luhova respinge con garbo i ringraziamenti per il tempo che ci dedica. Vuole parlare subito di Kherson, la città più colpita in questa scellerata guerra. Ancora oggi, a due mesi dalla liberazione avvenuta in novembre, una pioggia di missili e bombe cade sui civili che ogni giorno lottano per la sopravvivenza e la libertà. «Sono proprio loro – inizia a raccontarci il sindaco – le persone coraggiose che riparano tutto, dai cavi elettrici alle forniture idriche. Adesso va meglio: il 90% della popolazione ha l’approvvigionamento idrico, il 70% il riscaldamento e l’80% l’elettricità. All’inizio, però, è stato semplicemente orribile». L’armata di Putin, intanto, resta approssimativa e brutale e finisce per colpire soprattutto i civili. «Donne, uomini, persone anziane che tentano di vendere prodotti al mercato per sfuggire alla povertà». L’obiettivo dell’invasore – spiega – resta quello di «costringere quelli che riescono a catturare a dichiararsi partigiani o a fare i nomi di chi conoscono: veterani di operazioni contro i russi o militari dell’esercito ucraino. Li obbligano a parlare per filmarli, torturandoli indipendentemente dalle risposte».
Per un italiano la parola “partigiani” ha un valore enorme. Le chiediamo cosa significhi esserlo oggi in terra ucraina: «Grazie a loro Kherson è sopravvissuta. Sono stati gli occhi e le orecchie dell’esercito, gli attivisti della striscia/nastro gialla. Veniva piazzata ovunque, sotto gli occhi dei russi, per dire: “Kherson è viva, Kherson è ucraina, noi crediamo nell’esercito ucraino”». Eroi silenziosi, come nel caso di una giovane donna, anche lei membro dell’amministrazione locale, «partigiana sin dal primo momento. Alla fine fu trovata e rapita dai russi proprio nel giorno in cui furono costretti a lasciare Kherson. Non ebbero il tempo di farle del male, è stata molto fortunata».
Gli occhi di Halyna Luhova sono tristi e stanchi, ma le parole ferme. È restia a parlare delle prossime mosse dell’esercito ucraino, non conferma le indiscrezioni sull’utilizzo di bombe al fosforo da parte di Mosca e non si sbottona sul grado di efficacia delle armi promesse dagli Stati Uniti. «Siamo grati agli Usa e a tutti i Paesi che aiutano la nostra nazione a sopravvivere. Che le eventuali, nuove armi in arrivo siano importanti dal punto di vista strategico spetta dirlo ai militari». Nel frattempo aggiunge: «Stiamo aspettando la liberazione della costa sinistra del fiume Dnper. Preghiamo ogni giorno affinché questo avvenga nel più breve tempo possibile. Sono convinta che entro l’anno l’intero territorio ucraino sarà liberato». Corpo e mente sono proiettati verso il futuro, su cosa fare una volta riottenuta la libertà: ricostruire scuole, ospedali, asili, infrastrutture e abitazioni, considerato che «oltre 800 case sono state distrutte dai bombardamenti». Colpisce in lei un particolare: le mani incrociate per tutto il tempo come in preghiera, con le unghie laccate di un rosso vivo, sfavillante. Un vezzo direbbe qualcuno, difficile da immaginare in una condizione del genere, ma che rappresenta bene la tempra di questo popolo e di una donna che non vuole rinunciare a essere sé stessa.
Prima di congedarci, mentre il telefono suona a ripetizione, ci tiene a ringraziare «ogni Paese, ogni organizzazione e persona che supporta la causa ucraina. Altre città sono ancora occupate, altre ancora verranno liberate, ma ci sono tante persone che hanno bisogno del vostro supporto. Quando vinceremo, perché vinceremo, questa guerra sarà la vittoria del mondo intero».
Di Raffaela Mercurio
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