Vietare i social non è la soluzione
La psicologa Ludovica Badeschi sul divieto dei social per i più giovani: “La proibizione genera ribellione: soltanto un discorso più cooperativo può dare risposte”
Secondo l’ultimo rapporto Unicef, a livello globale un adolescente su 7 fra i 10 e i 19 anni convive con un disturbo mentale diagnosticato: nel 40% dei casi si tratta di ansia e di depressione, ma in gran parte non c’è né una diagnosi né una terapia. Fra le cause potenziali di questo disagio c’è un uso problematico dei social media: un allarme che ha compattato un fronte piuttosto trasversale animato dalla volontà di limitare o addirittura impedire l’accesso alle diverse piattaforme prima di una certa età. La prima a essere passata alle vie di fatto è stata l’Australia: il Senato federale di Canberra ha appena approvato il provvedimento più severo al mondo contro l’uso dei social network, impedendone l’accesso agli under 16. Come? Ancora non è chiaro.
Ludovica Bedeschi è psicologa psicoterapeuta, terapeuta Emdr e peak performance trainer. Lavora ogni giorno con adolescenti che soffrono anche di disturbi collegati a questo tipo di dipendenza: «I social sono una vetrina continua di un mondo artefatto. Una vetrina in cui persino la vulnerabilità è manipolata allo scopo di aumentare like e visibilità. E le aziende monetizzano il disagio perché sanno che veicola consenso» spiega. Ma a questo tsunami, che i social hanno provocato nelle vite dei più giovani, i genitori spesso non sanno come reagire: «Ogni volta che c’è un problema siamo abituati a cercare un colpevole. Certo, se gli adulti in casa si mostrano costantemente con il cellulare in mano, è difficile poi dire ai ragazzi di non usarli».
Ma un divieto imposto per legge basterebbe? «La proibizione genera ribellione, lo sappiamo da sempre: soltanto un discorso più cooperativo può dare risposte. Non bisogna mai stancarsi di perseguire il dialogo perché si tratta di un’ondata inarrestabile. Lo sforzo di condivisione deve partire dagli adulti, che non devono mai stancarsi di cercare un coinvolgimento sui contenuti di cui i giovani sono fruitori». Questo implica uno sforzo, da parte delle scuole e delle famiglie, per rendere quello dei social uno strumento formativo: «Perché per esempio non parlare a scuola dei trend su TikTok? Sarebbe un modo per discutere di temi che di fatto coinvolgono i più giovani e che non possono essere solo banalizzati o ignorati» suggerisce Bedeschi.
E ancora. Certe dinamiche non sono una novità del nostro tempo: «Non sono una nativa digitale, quando ero bambina non esistevano Instagram né TikTok, ma c’erano la televisione e i videogiochi. Mia nonna mi diceva “Stai sempre davanti alla tv!” oppure “Spegni quel videogioco!”. Questo per dire che è cambiata la cornice, ma non il quadro». Da mamma, Bedeschi ammette di aver accettato che la figlia (in terza media) aprisse un profilo su Instagram «ma non su TikTok, un social pericoloso per i giovanissimi, per il serio rischio dopaminergico che corrono». Qui entra in gioco la neurobiologia: «Non è soltanto un problema sociale. Scrollare per ore quei micro-video genera il rilascio di dopamina, un neurotrasmettitore collegato alla dipendenza» spiega.
Poi c’è il grande tema del confronto: «Sa che oggi il Viagra è usato soprattutto dai ragazzi fra i 18 e i 25 anni? Vanno su YouPorn, assistono a prestazioni che sono fuori dalla realtà e poi acquistano il farmaco per non essere da meno. Ecco da dove nasce la depressione: è una risposta alla comparazione. Se riuscissimo a evitare ai ragazzi questo impulso a sentirsi in competizione, ridurremmo potenziali motivi di rischio per loro».
di Ilaria Donatio
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Tag: social, social media