“Non si torna davvero”, intervista postuma a Gianfranco Scalas, testimone diretto della strage di Nassiriya
Intervista postuma a Gianfranco Scalas, testimone diretto della strage di Nassiriya
A dieci mesi dalla sua scomparsa, le parole del generale Gianfranco Scalas tornano a farsi ascoltare come un’eredità morale. Ufficiale e addetto stampa dell’Esercito, fu testimone diretto della strage di Nassiriya, in cui persero la vita 19 italiani e 9 iracheni. In questa intervista, limpida e dolorosa, c’è il racconto di un soldato che ha conosciuto la guerra, ma ha scelto la vita.
Cagliari, novembre. È sera. Le parole del generale Gianfranco Scalas, arrivano come un respiro che attraversa la memoria. Parla con la calma di chi ha visto troppo, ma non ha mai smesso di sentire. Ogni frase è una ferita che non sanguina più, ma brucia ancora. È la voce di un uomo che ha servito lo Stato, e che nel silenzio del dopo continua a servire la memoria dei suoi uomini.
Se chiude gli occhi e pensa a Nassiriya, cosa le appare?
«Vedo una città viva, più laica di quanto si credesse. Le donne avevano ruoli importanti: la direttrice della banca, le giornaliste della tv locale. Si respirava un’aria di speranza, fragile ma reale. Eppure quella calma mi inquietava. Era una calma carica di tensione, come se da un momento all’altro potesse succedere qualcosa. Avevo sempre il sesto senso all’erta. Non ero mai tranquillo. Anche a Sarajevo, tra i cecchini, camminavo più sereno. A Nassiriya no. Sentivo che il pericolo era vicino, invisibile, ma presente. Non era paura, era un presentimento. E purtroppo avevo ragione».
Cosa ricorda del 12 novembre 2003?
«Avevo cambiato programma all’ultimo momento. Dovevo uscire con i miei uomini, ma rimasi in ufficio. Dissi al tenente Massimo Ficuciello di accompagnare e scortare il regista Stefano Rolla, che stava girando un film sull’archeologia irachena. Gli prestai il mio giubbetto antiproiettile, “tanto poi ci vediamo più tardi”, gli dissi. Poi, all’ improvviso un boato. Un’esplosione sorda. Pensai fosse un brillamento di ordigni, una delle solite attività. Ma subito dopo sentii le urla di un maresciallo alla radio. Corsi fuori. Sul ponte sull’Eufrate il cielo era nero, l’aria piena di fumo. Quando arrivai, la base dei carabinieri era sventrata. La folla si aprì davanti a me in un silenzio irreale, come se avesse riconosciuto qualcosa nel mio sguardo. Camminavo tra le macerie e i corpi. Ho riconosciuto Olla. Cercavo Ficuciello, ma non lo trovavo. C’erano resti ovunque. Quella non era guerra: era disumanità. Una macelleria di vite spezzate».
Poi?
«Il silenzio. Prima di tutto. Un silenzio pesante come la polvere che copriva ogni cosa. Camminavo tra le pietre senza sentire i passi, solo il battito del cuore. Non c’era tempo per la paura, solo per cercare. Ogni corpo ritrovato era una storia che si chiudeva, ogni volto una domanda senza risposta. E io li ricordo tutti. Ogni sguardo, ogni gesto. Ricordo ogni nome».
E dopo la strage?
«Per quattro giorni non dormii, non mangiai. Solo acqua e caffè. Ero un automa. Dovevo gestire la comunicazione, rispondere alle telefonate da Roma, affrontare i giornalisti. Dentro di me, il vuoto. Mi ricordo una brioche che mi porse un soldato. Fu la prima cosa che riuscii a mangiare. Aveva il sapore della vita che tentava di tornare. Poi la confusione: trovarono il mio giubbetto addosso a Ficuciello e in Italia credettero che fossi morto io. Quando chiamai la madre di Olla, le sue urla mi rimbombarono nel cuore. È un grido che non va più via».
È riuscito a tornare alla ‘vita’ dopo Nassiriya?
«Non si torna davvero. Si impara a convivere con l’assenza. Il momento più duro non è stato sul campo, ma dopo, quando ho dovuto guardare negli occhi chi aveva perso tutto. Nessuna uniforme ti protegge da quel dolore. Al rientro ho trovato il vuoto. Nessuno che chiedesse come stavo. Ho avuto un crollo fisico e psicologico. In ospedale mi dissero: “Se dice che è stato a Nassiriya, può andarsene subito dall’Esercito». Risposi solo: “Non voglio mezza lira da Nassiriya». Non volevo soldi, né medaglie. Volevo rispetto. Invece trovai silenzi e dimenticanza. Ma non mi sono arreso. Ho continuato, anche quando l’anima avrebbe voluto fermarsi».
Cosa sono per lei “dovere” e “umanità”?
«Il dovere non è solo obbedire agli ordini. È restare in piedi davanti alla paura. Ho visto uomini condividere l’ultimo sorso d’acqua, l’ultima parola, l’ultimo respiro. L’uniforme non nasconde l’uomo, lo rivela. Il coraggio non è l’assenza di paura, ma la capacità di agire nonostante tutto. Dietro ogni medaglia ci sono lacrime invisibili, sacrifici che nessuno vede».
E la memoria?
«La memoria non è una condanna, è un dovere. Ricordare è dare voce a chi non può più parlare. Ogni anno, in silenzio, dedico un pensiero ai miei uomini. Non è assenza, è presenza. È il mio modo per dire grazie. Finché li ricordo, loro vivono ancora».
Parliamo della guerra.
«La vita è fragile, e per questo sacra. Nessuna guerra vale quanto una vita umana. Mi ha insegnato che non esiste gloria più grande della pietà, e che la dignità è l’uniforme più pesante da indossare. Quando è nata mia figlia Chiara, il 6 novembre 2004, ho capito che la vita può vincere sulla morte. Lei è stata la mia salvezza. È stata la vita a vincere, finalmente, su Nassiriya».
Cosa direbbe oggi ai giovani soldati?
«Non inseguite la gloria. Fate il vostro dovere, ma ricordate che il vero coraggio è tornare a casa con il cuore intatto. La guerra non finisce con gli spari: continua dentro chi resta. E chi resta deve imparare a perdonare, anche se non dimenticherà mai».
Poi si ferma. Il suo sguardo si perde oltre il tempo. Verso la città di Nassiriya. Vento e sabbia. Sorride appena, come chi ha trovato finalmente pace. Sussurra: «Ricordo ogni nome. È il mio modo di tenerli vivi, di farli camminare ancora con me».
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